Presentato in concorso ad Alice nella città, Rivière segna l’esordio nel lungometraggio di Hugues Hariche, regista francese ormai residente da un decennio negli Stati Uniti. Un Coming of Age che attinge anche dalle esperienze personali, e che adotta un punto di vista differente rispetto ad altre pellicole similari..
Ma lasciamo la parola al regista
Come è nata l’idea di realizzare Riviére?
Il mio interesse verso l’adolescenza è sempre stato molto vivo, e quindi volevo fare un film su questo tema, ricordandomi un po’ quello che avevo vissuto io nella mia adolescenza a Belfort, cittadina ai confini con la Svizzera.
E tra le cose che ricordavo della mia adolescenza, c’era anche l’hockey, un aspetto fondamentale del film. Mi piaceva molto questo luogo della pista di pattinaggio, che frequentavo anche quando ero adolescente.
Rivière si può inserire nel genere Coming of Age. Questo è un tema molto utilizzato nel cinema. Nell’affrontare questa storia, hai avuto timore di cadere nel déjà vu?
No. Quando negli anni ’90 ero un adolescente, mi piacevano molto i film a tematica adolescenziale, in particolar modo quelli di Coppola o Gus Van Sant, che sono stati una forte fonte d’ispirazione. Ho cercato di orientare questa visione adolescenziale un po’ sulla mia, perché potesse offrire un punto di vista differente, che magari altri avevano già raccontato però altri punti di vista.
E poi ho scelto come particolarità, quella di innestare uno sfondo sportivo sul tema dell’adolescenza. Oltre alla stratificazione delle storie che ho portato all’interno, perché la storia di Manon s’interseca con altre due o tre storie. Ecco, ho fatto queste scelte che sono differenti rispetto agli altri film.
Rivière è il tuo primo lungometraggio. È stato difficile passare dal cortometraggio al lungo?
Chiaramente un lungometraggio è diverso da un corto. In questo caso, la pre-poduzione è quella che ha preso più tempo, anche perché nel mezzo c’è stato il Covid che ha rallentato l’avanzamento della realizzazione, i finanziamenti che non arrivavano… tutta una serie di problematiche non legate strettamente al film.
Ma la differenza maggiore sta soprattutto nella struttura drammaturgica, chiaramente essendo più complessa. Quella del cortometraggio uno riesce a immaginarsela tutta insieme, mentre nel lungo è più complicato.
In Svizzera, da qualche anno, è sorta una specie di Nouvelle Vague. Per lo meno questo è ciò che percepiamo dall’esterno. Cosa pensi?
Ho una posizione strana in merito, perché ormai vivo da circa dieci anni negli Stati Uniti. Faccio avanti e indietro con la Francia, quindi non vivo questa realtà in maniera continuativa e quotidiana. Ne ho sentito parlare, so che c’è tutto questo fermento, però non ne faccio parte, non li conosco bene.
Prima hai citato come fonti d’ispirazione i “Teen-Movies” americani. Se Rivière lo avessi girato negli Stati Uniti, lo avresti fatto uguale?
I luoghi condizionano molto la sceneggiatura di un film. Ecco, questa sarebbe stata l’unica differenza, perché avrei comunque girato il film alla stessa maniera, tecnicamente.
