Bellissima, elegante e misteriosa, Silvana Mangano è stata una delle più grandi attrici italiane del secondo dopoguerra.
Il fisico statuario, lo sguardo malinconico e austero: in lei i tratti mediterranei e le sfumature nordiche sembravano congiungersi alla perfezione per dar vita ad una creatura meravigliosa, dalla bellezza magnetica e imperscrutabile.
Non si trattava certo di un caso, viste le origini siciliane del padre Amedeo e quelle inglesi della madre Ivy Webb che dalla periferia londinese s’era stabilita col marito, impiegato alle ferrovie, nel quartiere San Giovanni di Roma. In quello stesso quartiere dove la piccola Silvana veniva alla luce il 21 aprile del 1930 per andare incontro ad un destino non sempre benevolo, costellato di tanti successi ma anche di dolori laceranti.
A lei il Contemporanea International Film Festival, in programma a Torino dal 13 al 17 ottobre, dedica un affettuoso omaggio attraverso il ricordo della figlia Veronica De Laurentiis e la proiezione del film Teorema di Pier Paolo Pasolini in versione restaurata.
Dagli inizi al grande successo di Riso amaro
Il percorso cinematografico della Mangano ha inizio all’età di soli quindici anni, allorquando, nel 1945, partecipa come comparsa al film francese Le jugement dernier diretto da René Chanas.
In seguito, tra il 1946 e il 1948 l’attrice, favorita da una bellezza fuori dal comune che la porta ad essere eletta Miss Roma, ottiene delle piccole parti in alcune pellicole, tra cui L’elisir d’amore (1946) di Mario Costa e Il delitto di Giovanni Episcopo (1947) di Alberto Lattuada.
Occorre tuttavia attendere il 1949 perché la giovane Silvana conosca quel successo che la eleva a diva del grande schermo. È allora, infatti, che il regista Giuseppe De Santis, dopo una prima bocciatura per via del trucco e del vestito troppo appariscenti, le affida il ruolo della protagonista in Riso amaro, lungometraggio dallo stile raffinato che, incrociando cinema-verità, dramma sentimentale e noir, porta in scena le vicende della sensuale ed emancipata Silvana Meliga (Silvana Mangano), giovane mondina appassionata di fotoromanzi che, sullo sfondo della faticosa semina del riso nelle risaie del vercellese, dapprima intreccia una fugace liaison con l’onesto sergente Marco Galli (Raf Vallone), e quindi finisce per innamorarsi del furfante Walter Granata (Vittorio Gassman), il quale, con la promessa di una vita agiata, la coinvolge in un drammatico “colpo”.
Prendendo le mosse dalla denuncia sociale sulla dura condizione delle mondariso dell’epoca, Riso amaro, non disdegnando alcuni rimandi al realismo sovietico (specie nelle riprese delle scene di massa), si snoda attraverso atmosfere cupe e tese in cui neorealismo e cinema hollywoodiano sembrano incontrarsi. Non si tratta soltanto di una questione di generi cinematografici. A ben vedere, sono due universi opposti che vengono a contatto: l’uno ancora legato ad una cultura contadina, l’altro decisamente più attiguo a quella visione consumistica che, con le sue prospettive di benessere, si va facendo largo nell’Italia di allora. Per De Santis, insomma, ci si trova dinanzi ad un vero e proprio cambio di paradigma che può dar vita ad insidiose fascinazioni. Esattamente come accade all’ingenua Silvana Meliga che, nell’inseguire risolutamente il proprio sogno di ricchezza e di riscatto dalla povertà, finisce per pagare un prezzo molto alto.
Il film ottiene un grande successo non solo in Italia. Riso amaro viene candidato alla Palma d’oro al Festival di Cannes 1949 e ottiene la nomination agli Oscar 1951 per il miglior soggetto. Ma soprattutto sancisce la nascita di Silvana Mangano come nuova star del cinema italiano. Le calze autoreggenti, i pantaloncini corti: l’attrice romana si trasforma in un’esplosiva icona che nell’immaginario collettivo vuol essere la risposta nostrana alla statunitense Rita Hayworth. Non si tratta di un’affermazione straordinaria soltanto dal punto di vista professionale. Sul set di Riso amaro, infatti, la Mangano conosce il produttore Dino De Laurentiis con cui convola a nozze nel 1949.
Da Il lupo della Sila ad Anna
Sempre nel 1949, l’affascinante interprete prende parte a Il lupo della Sila, pellicola diretta da Duilio Coletti in cui veste i panni di Rosaria Campolo, una giovane donna che, nel tentativo di vendicare il fratello Pietro (Vittorio Gassman), morto ammazzato per delle vicende legate ad una sofferta storia d’amore, finisce lei stessa per vivere un amore contrastato con il bel Salvatore (Jacques Sernas). Ad opporsi è il padre di quest’ultimo, Rocco (Amedeo Nazzari), già obiettivo delle mire vendicatrici della ragazza.
L’anno seguente, Silvana Mangano si trova ancora alle prese con una storia di amore e vendetta interpretando il ruolo di Mara nel film Il brigante Musolino (1950) di Mario Camerini, angoscioso dramma dove si narrano le vicende ispirate alla vera storia dell’onesto carbonaio calabrese Giuseppe Musolino (Amedeo Nazzari), il quale, ingiustamente accusato dell’omicidio di un mafioso, viene condannato grazie ad una serie di false testimonianze. Riuscito ad evadere, Giuseppe si rifugia sulle montagne con Mara, la sua ragazza, e cerca di vendicarsi dei suoi falsi accusatori. Gli esiti saranno altamente dolorosi.
Il 1951 segna il passaggio della Mangano ad un nuovo ruolo memorabile. Infatti, riunendosi alla coppia ‘riso-amariana’ Gassman-Vallone, l’attrice prende parte ad Anna, film diretto da Alberto Lattuada, in cui, attraverso l’uso del flashback, si raccontano le vicende della protagonista che dà il nome alla pellicola (interpretata dalla stessa Mangano), una giovane suora che, dopo un passato turbolento come ballerina in un night e una storia d’amore con il bravo Andrea (Raf Vallone) finita drammaticamente, presta la sua attività come infermiera in un ospedale milanese. Qui, un giorno, ritrova l’ex fidanzato rimasto ferito in un incidente d’auto. Durante la convalescenza di quest’ultimo, i due si scoprono ancora innamorati, al punto che lo stesso Andrea propone ad Anna di seguirlo per cominciare una nuova vita. Ma la giovane donna è indecisa, dolorosamente divisa tra sentimento e senso del dovere.
Melodramma giocato abilmente sui dualismi sensualità/castità e istinto/ragione, Anna finisce per ottenere un risultato clamoroso al botteghino, andando a rappresentare il primo film italiano a superare il miliardo di lire di incasso. Si tratta di un successo a cui certamente contribuisce l’iconica sequenza della Mangano che, bellissima, si lancia in uno stuzzicante ballo notturno sulle note del famoso brano ‘El negro zumbón’, composto dal grande Armando Trovajoli.
Non si tratta di certo di una novità per l’attrice, che già nel precedente Riso amaro aveva stregato il proprio pubblico con un elettrizzante boogie-woogie. E che tornerà, nel 1954, ad ammaliare le platee di tutto il mondo ballando ancora nel film Mambo di Robert Rossen, dove interpreterà Giovanna Masetti, una donna che si emancipa dalle brutture degli uomini che la circondano grazie alla sua passione per la danza. Quella stessa danza che davvero aveva costituito il primo amore artistico della Mangano, la quale, prima ancora di diventare una stella del cinema, si era cimentata nello studio della disciplina frequentando alcuni corsi di ‘classica’ tenuti a Milano da Jia Ruskaja.
Il primo Nastro d’argento con Teresa e il grande successo de La grande guerra
Sempre nel 1954, dopo aver preso parte al kolossal Ulisse di Mario Camerini, rivestendo, al fianco di star del calibro di Kirk Douglas ed Anthony Quinn, il doppio ruolo di Penelope e Circe, Silvana Mangano viene diretta da Vittorio De Sica nell’episodio Teresa del film L’oro di Napoli, dove indossa i panni della protagonista del titolo, una prostituta che scopre d’essere stata appena presa in moglie dal neo-marito a mo’ d’espiazione per un suo sbaglio. Umiliata e offesa, Teresa lascia la ricca casa dello sposo nel pieno della notte, ma la prospettiva di tornare alla sua vecchia vita la induce ad una profonda riflessione.
In Teresa, Silvana Mangano offre una prova di grande intensità, riuscendo molto efficacemente a rendere lo smarrimento di una donna divisa tra dignità, volontà di riscatto e bisogno. Ed è così che per l’interprete romana arriva il primo riconoscimento della sua carriera cinematografica: si tratta del Nastro d’argento 1955 per la miglior attrice protagonista.
Gli impegni della vita familiare, coronata dalla nascita dei figli (in tutto saranno quattro: Veronica, Raffaella, Federico e Francesca), il carattere riservato, tendente al malinconico, nonché il deciso rifiuto d’essere ancora identificata come “maggiorata” spingono la Mangano a diradare i suoi impegni cinematografici e a selezionare attentamente le pellicole cui prendere parte. Occorrerà pertanto attendere ben tre anni per rivederla sul grande schermo.
Corre il 1957 quando l’attrice torna nelle sale con una pellicola diretta da Giuseppe De Santis e Leopoldo Savona dal titolo Uomini e lupi, a cui fa seguito la partecipazione a La diga sul Pacifico del francese René Clément. Per entrambi i film, Silvana Mangano ottiene la candidatura al Nastro d’argento 1958 come miglior attrice protagonista, senza tuttavia riuscire a portare a casa l’ambito premio.
Dopo aver girato il suo terzo film con Alberto Lattuada, dal titolo La tempesta (1958) – trasposizione cinematografica del romanzo ‘La figlia del capitano’ di Aleksandr Puskin -, l’attrice romana è chiamata a prendere parte ad un lungometraggio destinato a restare nella storia del cinema italiano. Si tratta de La grande guerra (1959), acuta tragicommedia diretta da Mario Monicelli, che ripercorrendo il conflitto del ’15-’18 attraverso le grottesche peripezie degli antieroici soldati Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), propone uno spaccato realistico di un’umanità ingenua e allo sbando che funge da potente controcanto alla vana e pomposa retorica di guerra.
La Mangano offre il suo prezioso contributo andando ad impersonare la scaltra prostituta Clementina, la quale concede i propri servizi allo sprovveduto Busacca/Gassman. È ciò che concorre al grandissimo successo di una pellicola che vince, tra gli altri, il Leone d’oro al Festival di Venezia 1959 ed ottiene la candidatura agli Oscar 1960 come miglior film straniero.
Il nuovo successo della Mangano con Il processo di Verona
Sulla spinta dell’affermazione de La grande guerra, Silvana Mangano, declinato l’invito di Federico Fellini a prendere parte a La dolce vita (1960), gira una serie di interessanti lungometraggi, tra i quali spiccano l’intrigante commedia “in giallo” Crimen (1960) di Mario Camerini, e il drammatico Jovanka e le altre (1960) di Martin Ritt, coproduzione italo-americana in cui l’attrice romana, recitando nella parte della donna che dà il titolo all’opera, si mostra con la testa completamente rasata.
Nel 1962 Silvana Mangano ottiene un grande successo personale interpretando il ruolo di Edda Ciano nella pellicola di Carlo Lizzani dal titolo Il processo di Verona, solida e asciutta ricostruzione, giocata tra dramma familiare e film giudiziario, delle vicende ruotanti intorno al processo tenutosi nel gennaio 1944 a carico di sei dei firmatari del cosiddetto “Ordine del giorno Grandi”, il provvedimento con cui, il 25 luglio 1943, veniva sancita la caduta del regime mussoliniano. Tra gli imputati – accusati dai repubblichini di tradimento ed aiuto al nemico -, Galeazzo Ciano, marito della stessa Edda, la quale nel racconto filmico cercherà tenacemente di salvare il proprio coniuge.
Con Il processo di Verona, la Mangano offre una performance di grande spessore e maturità riuscendo, nonostante la delicatezza del tema, a rendere con equilibrio e misura impeccabili il senso della tragedia umana che incombe sulla protagonista (notevole, in tal senso, è la sequenza della telefonata tra questa e il padre). È ciò che le consente di ottenere il pressoché unanime plauso di pubblico e critica, e di venire premiata come miglior attrice protagonista con il David di Donatello e la Grolla d’oro del 1963, nonché con il Nastro d’argento 1964.
L’incontro con Pasolini e Visconti
Dopo aver preso parte ad una serie lungometraggi, tra i quali la satira di costume in salsa fantascientifica Il disco volante (1964) di Tinto Brass, e Scusi, lei è favorevole o contrario? (1966), pungente commedia diretta dal grande amico Alberto Sordi vertente sul tema del divorzio, Silvana Mangano arriva ad un vero punto di svolta artistico nel 1967, allorquando prende parte a Le streghe, film in cinque episodi (diretti da Visconti, Bolognini, Pasolini, Rossi e De Sica) attraverso i quali viene esplorato l’universo femminile.
L’interprete romana è l’indiscussa mattatrice dell’intera pellicola e finisce meritatamente per ottenere il David di Donatello 1967 come miglior attrice protagonista. Ma soprattutto ha modo di farsi apprezzare da Luchino Visconti e Pier Paolo Pasolini, i quali, elevandola a musa, le faranno fare quel decisivo salto di qualità verso un cinema autoriale che le darà l’occasione di mostrare in pieno la propria eleganza e raffinatezza.
Con Pasolini, infatti, la Mangano prende parte nei panni di una dolente, diafana Giocasta a Edipo re (1967), film tratto dall’omonima tragedia di Sofocle con cui lo stesso regista, disseminando evidenti tracce autobiografiche, ripercorre il mito greco per muovere una profonda critica alla moderna società borghese. Società borghese che è ancora criticamente al centro dell’attenzione nell’enigmatico e perturbante Teorema (1968), lungometraggio dove l’attrice, ancora diretta da Pasolini, indossa i panni di un’annoiata, ricca signora che, assieme al resto della sua famiglia, si lascia sedurre da un misterioso ed affascinante giovane (Terence Stamp).
Il sodalizio artistico con il grande intellettuale friulano ha termine nel 1971 con Il Decameron, pellicola liberamente tratta dall’opera di Boccaccio, in cui la Mangano compare in un breve cammeo nel ruolo della Madonna. Sempre nello stesso anno, dopo aver preso parte al film storico Scipione detto anche l’Africano di Luigi Magni, l’attrice partecipa al film Morte a Venezia di Luchino Visconti, cupo ed elegantissimo adattamento cinematografico della quasi omonima novella di Thomas Mann dal titolo ‘La morte a Venezia’. Silvana Mangano è chiamata rivestire il ruolo della madre del giovane Tadzio (Björn Andrésen), un bellissimo adolescente di cui s’infatua il maturo compositore Gustav von Aschenbach (Dirk Bogarde), il quale, per inseguire la propria passione, viene risucchiato in un esiziale vortice di autodissoluzione.
Morte a Venezia ottiene al Festival di Cannes 1971 il Premio speciale per il 25° anniversario, assegnato a Luchino Visconti che, nello stesso anno, vince anche il David di Donatello come miglior regista. La pellicola, inoltre, conquista cinque Nastri d’argento e ottiene la nomination agli Oscar per i migliori costumi. Si tratta di un successo che non può non coinvolgere la stessa Mangano, la quale, per la sua fine interpretazione, viene premiata col Nastro d’argento come miglior attrice protagonista.
Da Lo scopone scientifico alle ultime collaborazioni con Visconti
L’anno successivo segna il ritorno dell’attrice ad una commedia all’italiana che le frutta il terzo David di Donatello. Si tratta de Lo scopone scientifico (1972) di Luigi Comencini, brillante racconto dal retrogusto amaro che, sullo sfondo di un paesaggio dalla forte impronta realista (la baraccopoli e i suoi abitanti), mette in scena un grottesco, cinico incontro/scontro tra classi sociali. È quello che vede coinvolta la sottoproletaria coppia di coniugi formata da Antonia (Silvana Mangano) e Peppino (Alberto Sordi), i quali ogni anno vengono convocati nella lussuosa villa di una ricca americana (Bette Davis) per giocare alcune partite a scopone scientifico. L’anziana signora si mostra gentile e generosa nei confronti di marito e moglie. Ma quando i due si trovano a vincere un’ingente somma, le carte in tavola (sic!) cambiano decisamente.
Sempre nel 1972, Luchino Visconti assegna all’interprete romana la parte di Cosima von Bülow in Ludwig, raffinatissimo, decadente melodramma storico che, proponendo un’amara riflessione sui dualismi arte/vita, sogno/realtà e istinto/ragione, ripercorre la dolorosa, struggente parabola esistenziale di Ludwig II di Wittelsbach (interpretato da Helmut Berger), salito sul trono di Baviera nel 1864 a soli diciotto anni.
Due anni più tardi il grande regista milanese chiama la Mangano ad una nuova collaborazione. L’attrice romana è la marchesa Bianca Brumonti in Gruppo di famiglia in un interno (1974), sontuosa pellicola che, su uno sfondo di decadenza e morte, propone, attraverso il meccanismo dell’incontro tra opposti, un dialogo intergenerazionale nell’ambito di una famiglia sui generis.
Il trasferimento negli Stati Uniti e gli ultimi anni
Il film rappresenta l’ultima apparizione di Silvana Mangano sul grande schermo prima di un lungo periodo di pausa. L’attrice, infatti, trasferitasi negli Stati Uniti al seguito del marito Dino, resterà lontana dalle scene per molti anni. Per lei si tratta di una fase difficile, caratterizzata dall’attraversamento di una profonda crisi personale che culminerà tragicamente nel 1981 con la morte a soli 26 anni dell’amato figlio Federico, vittima di un incidente aereo in Alaska.
Si tratta di un evento che getta l’attrice in uno stato di disperata afflizione e che, quasi inevitabilmente, la porta nel 1983 alla fine del matrimonio con De Laurentiis. Come se tutto ciò non bastasse, nello stesso periodo l’attrice scopre di essere affetta da un tumore allo stomaco. Eppure, proprio in un momento così terribile, la Mangano trova la forza di tornare al proprio lavoro. Lo fa nel 1984, sulla spinta della figlia Raffaella che, da produttrice del sottovalutato film di fantascienza Dune di David Lynch, convince la madre a partecipare alla pellicola stessa con un breve cammeo.
Si tratta del penultimo lungometraggio della grande interprete, la quale, tre anni più tardi decide di prendere parte ad Oci ciornie (1987) di Nikita Michalkov, elegante pellicola tratta da alcuni racconti di Anton Checov. Qui la Mangano veste i panni di Elisa, infelice moglie di un adultero Romano Patroni magnificamente interpretato da Marcello Mastroianni. Quel Marcello Mastroianni con cui l’attrice romana, molti anni prima, quando il successo, la fama e il benessere erano ancora di là da venire, aveva imbastito una breve relazione sentimentale. Sembra così che si riavvolga il nastro di un tempo perduto, o forse, più semplicemente, che si voglia chiudere un cerchio. Un cerchio che effettivamente si chiude il 16 dicembre del 1989, in un ospedale di Madrid (città in cui si era trasferita dalla figlia Francesca), dove l’attrice si spegne ormai consumata dal male che l’affligge.
Cala così il sipario su una delle interpreti femminili che più hanno caratterizzato un’intera epoca.
Silvana Mangano, antidiva al contempo sensuale e misteriosa, raffinata e malinconica, si allontana per sempre dalle scene, lasciando un patrimonio artistico che ricalca la parabola cinematografica italiana dal secondo dopoguerra ai primi anni ’70. Scompare l’indimenticabile interprete di Riso amaro. Amaro come è stato con lei il destino nei suoi ultimi anni, spietato nello strapparla alla vita ancora giovane, crudele nel riservarle il dolore estremo della perdita di un figlio. Quell’adorato figlio accanto al quale oggi riposa in un cimitero statunitense dalle parti di New York. Tutto ciò mentre il mondo intero continua ad ammirarla attraverso le sue opere più amate e indimenticabili. Lei stessa amata e indimenticabile, perché sino a quando il cinema vivrà, lo sguardo e il fascino di Silvana Mangano saranno sempre lì ad interrogarci e ad emozionarci.
Contemporanea International Film Festival 2023: il programma
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