Yana (Ia Sukhitashvili) ha abbandonato la sua carriera di attrice per sposare il missionario Testimone di Geova David (Rati Oneli). Presa dai dubbi sulle scelte fatte si domanda: la scelta è solo un’illusione?
Beginning , lungometraggio d’esordio della regista georgiana Dea Kulumbegashvili, tratta temi importanti: libertà, religione, uguaglianza tra uomo e donna nella famiglia patriarcale. Contrasti messi in evidenza anche attraverso tecniche registiche particolari come le inquadrature fisse sui personaggi in scena. Passato per Toronto e Cannes 2020, il film è la conferma del talento di Kulumbegashvili, talento già anticipato dai suoi cortometraggi Invisible Spaces (2014) e Léthé (2016), entrambi apprezzati a Cannes.
Fin dalle prime ‘infuocate’ immagini si percepisce un clima claustrofobico e un sottofondo thriller della pellicola. David è sul pulpito e sta tenendo un sermone su Abramo. Sullo schermo dipinti sul tema del sacrificio. Il discorso spazia tra ebraismo, cristianesimo e islam. Kulumbegashvili resta fissa sull’oscurità e sulla poca luce nella stanza, tecnica visiva che ripeterà per tutto il resto della pellicola. Le figure umane restano lontane nello spazio della sala , non ne percepiamo quasi i volti e lo scoppio dell’incendio coglie di sorpresa perchè quasi inizialmente ignorato e minimizzato. L’evento sactenerà un susseguirdi di accadimenti che segneranno un punto di svolta (oppure no?) nella vita della famiglia.
Male e Bene. Uomo e Donna
Cosa è bene e cosa è male sono domande frequenti che dominano il film e la risposta non è mai semplice da dare come non facile è la determinazione della concezione del peccato e della sua natura. Gli autori dell’incendio sono stati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza ma la polizia chiede a David di cancellare i filmati. David si rifiuta di cancellare il nastro e convive con un conflitto profondo nella sua coscienza.
Il sentimento di Yana è invece quello della frustrazione . Kulummbegashvili è abile a mostrare la depressione della donna con movimenti di telecamera fissi sul suo volto in una maniera neorealista . Yana , una intensa Ia Sukhitashvili, soffre ma continua a dover insegnare al figlio i fondamenti di una religione che gli è stata imposta e in cui la donna e l’uomo sono separati da secoli di tradizione patriarcale. Yana vuole sentire di nuovo, vivere di nuovo, respirare di nuovo . Non riesce più ad essere solo una madre e una moglie ma ambisce ad altro. La strada che trova per dare sollievo alla sua anima è estrema.
In un pomeriggio autunnale Yana passeggia con suo figlio Giorgi (Saba Gogichaishvili) nei boschi locali, fermandosi in una radura tappezzata di foglie. Con attenzione, si sdraia e chiude gli occhi tra i rumori della Natura. Per sei minuti, attraverso un’inquadratura ininterrotta e strettamente inquadrata, la guardiamo riposare, giocando alla morte quando suo figlio cerca di svegliarla.
Un debutto convincente
“È come se stessi aspettando che qualcosa inizi o finisca”.
Con i lunghi, lenti e fermi passaggi di narrazione non verbale – abile il direttore della fotografia Arseni Khachaturan – il debutto di Kulumbegashvili fa pensare un po’ al cinema di Michael Haneke ma non è un’ opera di mera emulazione. Ha una sua grande autenticità che si mostra soprattutto in una maniera molto personale di analizzare i personaggi. Kulumbegashvili non è tanto fissata sugli atti indicibili raccontati nel film quanto piuttosto sui modi in cui la società patriarcale ha lavorato per anni per svuotare la vita di Yara. Non è solo la violenza fisica che intende denunciare dunque, Quello che le preme è la descrizione della violazione dell’identità, della volontà, dell’Io femminile.
Il finale ambiguo ci allontana poi da Yana e dal suo Universo per una riflessione generale sul male mentre tutto intorno al film c’è ancora attesa , ancora spazio , ancora vuoto e c’è ancora silenzio per riflettere.