C’è una darkness, un’oscurità, intrinseca in ogni cultura che non può smettere di “prendere”, un’avidità dalla quale non puoi mai tornare indietro. Così parlava Martin Scorsese in un’intervista rilasciata a Giulia D’Agnolo Vallan per Il Manifesto. Era il 2004 e il regista statunitense aveva appena girato The Aviator, film dedicato alla vita di Howard Hughes, uno dei più grandi imprenditori americani e tra gli uomini più influenti dal punto di vista finanziario nel mondo. Vent’anni dopo, Scorsese prende quell’oscurità e la riversa in Killers of the Flower Moon, una pellicola che mescola denuncia sociale, dolore e una richiesta di perdono che, consapevolmente, è impossibile da ottenere.
Un urlo di dolore
Killers of the Flower Moon è un urlo di dolore lungo più di tre ore. Che parte dalla storia e che investe il mondo contemporaneo con la forza che solo il Cinema ed i suoi più grandi Autori sono in grado di restituire. Scorsese prende una delle pagine più tristi della storia americana e compie un j’accuse che non passerà inosservato. La violenza del film è conseguenza della ferocia dei colonizzatori americani e viaggia sul suo stesso piano. Scorsese si discosta dalla classica rappresentazione della violenza pura, una violenza a cui siamo abituati, ma che nell’autore statunitense ha sempre una funzione catartica. Nel caso di Killers of the Flower Moon la violenza non ha nulla di purificante, è una violenza sordida che striscia inosservata e che colpisce alle spalle. Questa scelta rende il film terribilmente attuale. La violenza segreta e infame che permea la terra degli Osage degli anni ’20 diventa uno specchio del mondo contemporaneo, uno specchio che luccica solo all’apparenza lucente; in realtà terribilmente macchiato.
Un dualismo spietato
Come altre opere del maestro, anche Killers of the Flower Moon si muove su una dialettica che poggia sul dualismo e sulla contrapposizione. Tutto nell’opera di Scorsese è doppio e contrapposto: le famiglie indigene contro le regole americane; la violenza contro la dignità dei nativi; la vita dissoluta contro la vita spirituale. E infine il doppio malvagio, il doppio oscuro, avido, che prende senza mai tornare indietro. Incarnato in maniera diabolica dal personaggio di William “King” Hale interpretato da un Robert De Niro, per il quale gli aggettivi sono finiti: immenso, magnifico, straordinario. Bisogna fare attenzione però a non dimenticare tutti gli altri doppi malvagi che il film mette in scena, personalità che abbracciano l’oscurità in ogni sua sfumatura. Ernest Burkhart, interpretato da Leonardo DiCaprio, è forse il personaggio che rappresenta al meglio il dualismo che percorre il film. L’uomo è avido e disposto a tutto per il denaro, ma al contempo è attraversato da un’umanità che lo lega in maniera indissolubile alla moglie Mollie, interpretata da una stratosferica Lily Gladstone.
Una lettera di scuse
Come scritto in apertura, l’ultima opera di Scorsese è una lunga richiesta di perdono al popolo dei nativi americani. Una lettera di scuse tardiva e che difficilmente verrà accettata, ma non è questo l’obiettivo di Scorsese. Come un moderno Schindler, l’autore statunitense crea un mea culpa che coinvolge i suoi avi. Lì dove non si può intervenire, è doveroso ricordare.
Killers of the Flower Moon diventa, quindi, una fervida testimonianza di un popolo che lotta da sempre contro la sua sparizione. Le continue intromissioni nella diegesi di foto di famiglia, cinegiornali e rituali della comunità Osage indicano come l’autore non abbia solo voluto denunciare i suoi discendenti, ma ricordare fortemente le popolazioni devastate dall’avidità e dalla malvagità dei tycoon statunitensi.