Il potente documentario Hawar, our banished children di Pascale Bourgaux racconta, in maniera nuda e cruda, una tremenda realtà. Presentato in anteprima italiana alla 14esima edizione del Middle East Now a Firenze.
La trama di Hawar, our banished children
Nel 2014, Daesh ha preso il controllo dell’Iraq settentrionale, dove vive la comunità yazida, e ha separato le famiglie, uccidendo gli uomini e rapendo donne e ragazze, che sono state poi “offerte” ai combattenti della jihad. La reporter e regista racconta la storia dei bambini nati durante questo periodo di prigionia, “i bastardi di Daesh”, facendo luce su una tragedia rimasta per troppo tempo nascosta. (Fonte: Middle East Now)
La recensione
Il viaggio che facciamo insieme ad Ana, nome di fantasia utilizzato per riferirsi alla donna protagonista, è un viaggio difficilissimo. Siamo con lei in auto lungo una strada che sembra non finire mai per arrivare a una meta vicina eppure così distante.
La sua piccola Marya è come se fosse la figlia di tutti noi che guardiamo e seguiamo questo documentario con un nodo alla gola continuo e costante. Sappiamo già cosa ci aspetta eppure confidiamo che il finale (e la realtà) cambino.
Ana, continuamente nascosta, sia per tutelare la sua vita, sia per permettere allo spettatore di concentrarsi su ciò che si vede senza essere troppo influenzato dalle azioni della protagonista, vaga con una meta, ma senza successo.
La struttura di Hawar, our banished children
Nella prima parte veniamo a conoscenza della storia di Ana. La donna, senza dare informazioni troppo precise, racconta la sua terribile storia. In auto, come in una lunga e silenziosa confessione, la protagonista si toglie la maschera e si racconta. In parallelo al suo racconto, l’auto procede lungo la strada, senza far capire dove sia effettivamente.
Nella seconda parte, invece, entrano in scena anche altri personaggi. Non c’è più solo Ana. Ci sono tutti coloro che hanno (avuto) a che fare con lei. Tutto raccontato sempre cercando di tutelare la protagonista, seguita passo passo, senza mai invadere il suo spazio vitale. Quella libertà che le è stata negata nella vita reale le viene concessa attraverso questo racconto intimo e personale. Il mezzo cinematografico diventa per lei la sua massima espressione, ciò che le permette di essere quasi del tutto sé stessa.
Una luce nell’ombra
Nella completa e totale disperazione del mondo nel quale si trova costretta a vivere Ana c’è, però, una luce in fondo al tunnel. Hawar, our banished children insegna che, essendoci sempre una speranza, seppur flebile, bisogna comunque continuare a lottare.
E il documentario ce lo fa capire fin da subito. L’enorme distesa paesaggistica che apre il lungometraggio è metafora di tutto il male che viene perpetrato e di tutto ciò che continuamente viene subito da tantissime persone. Ma in questa enorme distesa ci sono anche piccoli elementi che riescono a nascere a prescindere. E Ana e Marya ne sono un esempio. Una luce in fondo al tunnel, una storia rimasta nascosta fin troppo che merita di essere raccontata e conosciuta.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli