Cities of Last Things del regista taiwanese Wi Ding Ho racconta la storia travagliata di un poliziotto in tre capitoli, seguiti in ordine cronologico inverso: tre fasi della sua vita, tre notti nella stessa città, tre stili differenti.
Il film si apre con una scena sci-fi ambientata in un futuro distopico, dove il protagonista, Zhang Dong-ling (Jack Kao), si suicida dopo aver scoperto la verità sul suo passato.
Il film procede poi a ritroso, mostrandoci la notte di vendetta di Zhang nei confronti del suo ex capo, e infine quella in cui ha incontrato per la prima volta la sua futura moglie.
Potete vederlo qui: Netflix
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CITIES OF LAST THINGS: LA RECENSIONE
Il primo segmento del film ci immerge in una fantascienza silenziosamente surreale, cupa e claustrofobica, dove la tecnologia domina la vita delle persone e le priva della loro identità. In questa prima parte si fondono film come Blade Runner e Minority Report.
Il secondo segmento è un noir crudo e violento, che richiama alla mente Oldboy e Collateral. Qui la giustizia è una questione personale e il confine tra bene e male è sfumato.
Infine, il terzo segmento culmina nel melodramma, omaggiando i film di Wong Kar-wai, dove l’amore è visto come una forza irresistibile e tragica.
Inoltre, ciascuno dei tre atti di Cities of Last Things non è solo ambientato in un periodo di tempo progressivamente precedente, ma in un’ora della notte che si fa sempre più tarda, e durante una stagione diversa.
Per quanto riguarda i personaggi femminili, occupano nella storia un ruolo di primo piano: per Zhang sono sia angeli che demoni, fonte di luce ma anche di oscurità. Esse rappresentano proprio le “ultime cose” del titolo: le ultime cose che il protagonista ama, che odia, che lo fanno vivere.
Cities of Last Things si configura come il racconto di una vita di fallimenti, di sconfitte, di umiliazioni, di occasioni perse, di porte aperte sempre nel momento sbagliato; è una storia che riflette sul destino, sulle scelte e sulle conseguenze che ne derivano.
Eppure, Cities of Last Things è anche una vivace esortazione a vivere ogni momento come se fosse l’ultimo, consapevoli che ogni inizio contiene già la fine.
La storia utilizza la sua struttura non cronologica per invocare l’idea che ogni incontro è un abbandono, ogni inizio una fine, ogni primo passo è l’ultimo, e che tutto ciò che siamo è la somma totale di tutte quelle “ultime cose”.