Nella lunga storia senza fine dell’animazione giapponese si sono soffermati nel tempo diversi autori, pilastri del medium che hanno lasciato e cancellato i propri segni.
Kitayama, Shimokawa e Kouchi hanno tratteggiato le prime linee, Tezuka ha trasformato queste linee in una nuova espressione culturale, Oshii, Otomo e Anno hanno definito la concezione visiva del cyberpunk, ed altri come Kon, Watanabe e il sempreverde Miyazaki hanno trovato negli anime il mezzo d’espressione per la loro poetica.
Di fronte a questo lungo tracciato, Masaaki Yuasa si pone come nuovo, visionario e colorato pilastro portante dell’arte animata orientale.
Ci sarebbero tante definizioni complesse e tecniche per definirne l’estro, ma, semplicemente, Yuasa è colui che, nelle sue storie, immortala la vita e ne rivive appieno ogni assurdità, sia positiva che negativa.
Il gran maestro dell’assurdo farà il suo ritorno nelle sale italiane con Inu-Oh, in uscita il 12 ottobre distribuito da Hikari Edizioni e Double Line. Per questo, ripercorriamo assieme la filmografia di una delle menti più rilevanti del cinema giapponese moderno.
La formazione di Yuasa
Yuasa inizia la carriera da animatore a ventott’anni, lavorando prima alla serie Chibi-Maruko chan, e divenendo poi animation coordinator della celebre serie Shin-Chan.
In questo periodo, che definisce tutt’oggi come l’esperienza più importante e divertente della sua vita, il contatto con lo stile sgangherato e volutamente grezzo delle due serie lo istruisce molto.
Conclusi i primi due lavori, il giovane talento di Fukuoka inizia a girovagare per i vari studi giapponesi lavorando come animatore freelance.
Durante questo periodo, altrettanto formativo, a modo di conoscere ed interagire con registi come Koji Morimoto (Robot Carnival) e Isao Takahata sul film I miei Vicini Yamada, dai quali riceve numerosi spunti e consigli.
Arrivato al 2002, il curriculum di Yuasa è bello pieno di grandi nomi, progetti e raccomandazioni. Decide, quindi, di tentare il grande passo, proponendo allo Studio 4°C di Morimoto un lungometraggio animato.
Mind Game, l’esordio cinematografico
Nel 2004 esce in Giappone Mind Game, l’opera prima di Masaaki Yuasa. Ed il titolo del film, di per sé, è già abbastanza esplicativo.
Nishi, un aspirante mangaka, incontra per puro caso la sua vecchia compagna di liceo Myon, di cui è sempre stato innamorato. Myon rivela a Nishi che a breve si sposerà, procurando al protagonista un forte dilemma: confessare il proprio amore o meno.
Da qui in poi è anche difficile spiegare cosa accade, perché il boato creativo di Yuasa lascia pochi appigli a cui aggrapparsi. Guerre tra yakuza, resurrezioni ed interazioni divine, un’avventura dentro una megattera in puro stile Drive-In di Joe R. Landsale.
Yuasa sugella un’opera in parte Pulp movie, in parte viaggio spirituale, dove, come ogni esordiente di grandi prospettive, il suo estro è un fiume in piena.
Non ha paura di uscire, di strappare i limiti convenzionali dell’animazione e Mind Game diviene specchio della sua educazione iconografica, culturale ed estetica, nonché veicolo, tramite Nishi, di un’esposizione totale di sé allo spettatore.
Vengono messe alla berlina le sue pulsioni sessuali ed innocentemente infantili, che si raccontano egregiamente nel suo stile grezzo e apparentemente preliminare.
Un nuovo modo di vedere l’animazione, sperimentale fino al midollo, dove non esiste rigidità e compostezza, ma un unico fluire di corpi molleggianti, rappresentazioni grottesche e continue esplosioni policromatiche.
I primi passi dello Yuasa style si vedono tutti nelle immagini in tecnica mista, dove i volti veri dei doppiatori diventano anch’essi fotogrammi da animare e dove le tecniche in tre dimensioni dipingono ancora di più il mondo surreale e selvaggio di Mind Game.
Con una regia dinamica come poche ed una colonna sonora di Shinichiro Watanabe impeccabile, Yuasa trasforma la sua prima pellicola in un monito per i creativi come lui: sperimentate, vivete, create la vostra realtà.
Il film viene lodato dalla critica e riceve diversi riconoscimenti, sia per la tecnica che per la creatività registica. Ma, come per ogni grande opera, diviene anche uno dei più peggiori incassi al botteghino di Studio 4°C. Il primo ‘trucco mentale’ di Yuasa allo spettatore è riuscito.
Le prime serie animate
Mind Game permette al regista di tornare a lavorare in televisione con una nota di forte riguardo. Le richieste dalle emittenti televisive aumentano e, con esse, anche le possibilità di rilanciarsi.
Nel 2006 inizia il sodalizio con Madhouse, con la quale Yuasa scrive, produce e dirige Kemonozume (2006) e Kaiba (2008).
La prima, una rivisitazione in chiave moderna e ‘yuasiana’ di Romeo e Giulietta, è tutt’ora inedita in Occidente, mentre la seconda è disponibile anche da noi, su VVVVID, e a ragion veduta.
Con Kaiba, Yuasa attua il secondo ‘gioco mentale’ allo spettatore, forse il più strabiliante. Il cineasta prende il disegno da libro di storia di Osamu Tezuka e lo porta in lidi sconosciuti, dove la sua esigenza sociale e politica trova sempre modo di adattarsi.
Nasce così l’universo di Kaiba, un contesto futuristico dove i ricordi possono essere trasferiti di corpo in corpo, rendendo il morire superfluo. Lo spettatore si risveglia assieme al protagonista Warp, ragazzino con i tratti puri di Tima nel Metropolis di Rintaro e Tezuka, e, piano piano, entra sempre più in connessione con la distopica visione del futuro di Yuasa.
L’aspetto chibi (o tenero) del mondo e dei personaggi ne cela la profondità e pesantezza dei temi, nei quali il regista pone tutto il suo scetticismo o pessimismo nei confronti della società odierna ma con un barlume di speranza sempre rivolto verso le generazioni future.
Ancora una volta, lascia che i ragazzi, o i personaggi dall’aspetto più giovanile, tengano le redini del mondo e ne siano protagonisti. Alcuni vengono corrotti dalla caduta di quei valori semplici e puri a causa dell’egoismo umano, altri, coloro che rimangono innocenti, volontariamente o meno, divengono gli eroi e portatori di verità e speranza.
Yuasa non nasconde mai il forte disprezzo verso la disparità sociale, realizzando la più umanistica analisi di un mondo non così dissimile dal nostro, dove il corpo diviene scarto riutilizzabile, e al quale il regista spera di non auspicare mai.
La serie diviene anche il banco di prova definitivo del suo talento, meno sregolato, ma capace di mettere in mostra un controllo registico eccellente, in grado di usare ogni tecnica di animazione nella maniera più manieristica possibile.
Kaiba è senza ombra di dubbio la sua opera più complessa e stratificata, a momenti la migliore, tutt’ora sconosciuta ai più e che merita assolutamente una riscoperta del pubblico attuale.
La trilogia del destino di Yuasa e Morimi
La visionarietà di Kaiba convince Madhouse ad accettare le insistenti richieste di Yuasa nel produrre una serie di undici episodi tratta dai romanzi di Tomohiko Morimi, ovvero The Tatami Galaxy.
La serie segue la vita di uno studente senza nome al terzo anno di università e del tempo perso dentro il club universitario da lui frequentato lungo il primo anno. Qui fa la conoscenza di Ozu, un altro studente, che lo coinvolge in situazioni e missioni assurde e disdicevoli.
Lungo questo periodo il protagonista si innamora di Akashi, una studentessa di ingegneria a cui fa varie promesse sperando di poterne fare la sua compagna; spesso però le sue missioni dalla dubbia morale vedono scontrarsi con l’interesse per la ragazza.
Con questa serie, Yuasa torna un po’ alle sue origini. Come fa lo stesso Morimi nel libro, il regista proietta, nel protagonista e negli altri personaggi parte della sua vita da giovane universitario, vissuta tra mille problemi ed indecisioni sul da farsi.
Per questo, decide di tornare nella frenesia e nel bizzarro di Mind Game seppur limitato dal contesto studentesco, creando un proprio loop temporale pittoresco come pochi.
Ritornano prepotentemente gli esperimenti di unione di animazione e riprese live-action, e con essi i tanti labirinti visivi che elabora, mentre il suo tratto sporco continua imperterrito nel percorso di formazione da lui delineato, dando vita e dinamicità ai monotoni e ripetitivi flussi di coscienza del protagonista, intrisi di parti di vita vissuta del regista.
Lo studente medio, debole e codardo, ancora una volta protagonista delle storie di Yuasa, è tartassato dal dubbio sociale e morale, spaventato da ogni possibile scelta sbagliata e trovando la sua essenza vitale, il suo destino proprio in questo limbo.
Qui Yuasa, con il suo indomabile ottimismo, mostra come sia la paura di sbagliare a renderci infelici.
Esistono davvero le scelte sbagliate che condizionano negativamente il nostro futuro? Può essere, ma una volta compiuta una scelta il nostro presente è deciso, tutte le altre possibilità non esistono più, pertanto è inutile preoccuparsene.
Il successo di The Tatami Galaxy va oltre ogni rosea aspettativa, e la serie diviene il primo lavoro di Yuasa distribuito internazionalmente. Anche all’estero riceve elogi e riconoscimenti, e il nome del regista inizia a girare sulla bocca degli appassionati.
Ma Yuasa sente ancora troppo forte il legame che ha con Morimi e le sue opere. Infatti, terminata la lavorazione di Ping Pong The Animation e fondato il suo studio d’animazione, Science SARU, Yuasa inizia a lavorare sulla trasposizione animata del romanzo The Night Is Short Walk on Girl, best seller giapponese del 2006.
Dopo pochi anni, nel 2017, esce nelle sale nipponiche l’omonimo film, in cui una studentessa universitaria, trascorre una nottata brava in una eccentrica e surreale Kyoto, in un susseguirsi di feste, incontri bizzarri e spettacoli itineranti.
Ancora una volta, Yuasa fa centro. Il lungometraggio è un dolce e stravagante inno al vivere in libertà, all’ebbrezza dell’alcol, al cogliere ogni istante che la realtà ci porge.
La ragazza coi capelli corvini, protagonista femminile, disegnata con tratto semplice e mai estroso, si crogiola nella cornice notturna di una Kyoto da favola, che unisce sonorità, atmosfere ed ispirazioni che ricordano La città incantata di un certo Hayao Miyazaki.
Ancora più che in The Tatami Galaxy, Yuasa si sbizzarrisce in movimenti di camera ed inquadrature assurdi, legate ad intuizioni che lasciano esterrefatti in continuazione.
Il regista si lascia andare in una sbornia animata mai vista, dove lo spettegolare, l’ubriacarsi, l’inseguire un amore impossibili sono cose che rendono la vita un grande divertimento.
Gli elementi caratteristici di Yuasa, poi, ci sono tutti. Il protagonista maschile fifone e incapace di dichiararsi, costretto a compiere un enorme odissea amorosa, dove, alla fine, quello salvato sarà lui.
Il costante e comico tentativo dei personaggi di analizzare meccanicamente la vita, come se si fosse in grado di trovarne un trucco.
Ed, infine, il tema del destino, sempre caro al regista e sempre presente nei romanzi di Morimi, che, ancora una volta, viene scardinato dal suo piedistallo ideologico.
Yuasa dà libero sfogo alla sua voglia di libertà e di gioia, continuando ad andare contro non solo alla rigidità millenaria del Giappone, ma anche contro gli stilemi classici dell’animazione mondiale.
Il terzo capitolo di questa trilogia di adattamenti, The Tatami Time Machine Blues, in esclusiva su Disney+, passa in mano al talentuoso Shingo Natsume, di cui si fa erede spirituale dell’intero lascito artistico del suo predecessore.
E’ impossibile, infatti, non notare quanto forte sia l’ispirazione e la fedeltà di Natsume, nello stile e nei temi, alle prime due opere, il che lo rende, seppur non di fatto, il terzo capitolo della grande trilogia yuasiana.
I corti di Masaaki Yuasa
Una parentesi importante si deve dare anche ai corti, prodotti uno nel 2007 da Studio 4°C e l’altro da Production I.G nel 2012.
Il primo, Happy Machine, viene inserito nella raccolta antologica di corti d’avanguardia Genius Party, in cui Yuasa ha libertà assoluta nella creazione e nella narrazione, e si può ben capire cosa può uscirne fuori. Un esperimento visivo dalla risicata narrazione, tanto tematicamente infantile quanto colorato e ispirato.
Il viaggio del neonato per un mondo astratto tra il surrealismo daliniano e le forme gommose dei Barbapapà è qualcosa di unico nel suo genere, sicuramente non facilmente recepibile, ma considerabile come il manifesto artistico dello Yuasa più visionario.
Poi troviamo Kick-Heart, secondo corto molto più semplice nella ricezione e nelle intenzioni. Yuasa decide di cimentarsi, per la prima volta, sul tema dell’amore a prima vista, o a prima botta, visto l’esagerato incontro di wrestling che è il corto.
Anche il normale colpo di fulmine non può che essere raccontato con un vero e proprio spettacolo BDSM mai troppo implicito, scriteriatamente divertente e dissacrante.
L’amore vissuto tra la pura attrazione carnale ed il seguire una propria (seppur di dubbia etica) moralità si sprigiona nello Yuasa style, sempre grezzo, infantile, frenetico e di cui, probabilmente, questo corto può esserne definito l’esempio perfetto.
Ping Pong The Animation, la venuta dell’eroe
Terminata la sua serie più di successo, viene proposto a Fuji TV la trasposizione animata di un celebre manga di Taiyo Matsumoto, ovvero Ping Pong The Animation, che, nel 2014, viene messa in onda nel contenitore noitaminA (Animation al contrario) dell’emittente nazionale.
La stoffa di Yuasa è ormai certificato e lui stesso si cimenta, ancora una volta, nell’adattamento di un’opera non da lui scritta ma divenuta culto tra gli appassionati manga. Nessuno, però, si immagina l’impatto gigantesco che la serie avrà.
Yuasa trova il suo doppio artistico in Matsumoto, di cui fa una trasposizione fedelissima e, a momenti, copiata paro paro dal manga omonimo. Nelle linee, nella dinamicità dei momenti, nella rozza ed anticonvenzionale costruzione delle scene.
Non solo, proprio quell’esagerazione nelle prospettive e nelle fluidità delle forme raggiunge qui il suo pieno apice in animazione al costante ribasso di frame e costi di lavoro.
Nonostante un budget risicato e tempi di produzione stretti all’inverosimile, Masaaki mette tutto il sé stesso registico in ogni episodio e vivifica un dinamismo unico nel suo genere, mentre si prodiga in intuizioni ed invenzioni sempre più sorprendenti nei momenti più carichi di pathos ed emotività.
Fa molto strano parlare di split-screen mosaici da dodici pezzi, prospettive da giganti o draghi incorporati in colpi di rovescio all’interno di tutte le partite di ping-pong che la serie decide di raccontare.
Si fa difficoltà a trovare tipi di inquadrature simili tra loro anche all’interno di un singolo episodio, tanto l’estro cinematografico del regista è grande e variegato.
Ma forse il più grande pregio dell’opera è l’aver reso ancor più celeberrima la penna, il tratto e la narrazione di Taiyo Matsumoto, che Yuasa tratta con grande rispetto.
Il ping-pong viene raccontato come sport di rivalsa, di rinascita e di rivincita, dove in ogni colpo può nascondersi un desiderio, un traguardo che ogni giocatore vuole raggiungere.
L’uomo, la sua psicologia ed i suoi sogni sono i veri motori dell’azione filmica della serie, Yuasa lo sa e racchiude il suo talento in quella piccola pallina sparata a velocità luce.
La serie ha un successo astronomico di pubblico e critica, i riconoscimenti arrivano e si inizia a sentire sempre di più il titolo di maestro dell’animazione.
Gli ultimi film
Tra le sue mille avventure, Yuasa fonda nel 2013, assieme alla produttrice Eunyoung Choi, lo studio d’animazione Science SARU, che si occupa della lavorazione delle sue opere principali future.
Infatti, nel 2016, lo studio annuncia l’uscita per l’anno dopo del suo terzo lungometraggio, scritto e diretto da lui, Lu e la città delle sirene.
Kai, in seguito alla separazione dei genitori, si trasferisce da Tokyo a Hinashi, un piccolo paese di pescatori dove vive insieme al padre e al nonno. Nel tempo libero compone musica e finisce così per attirare le attenzioni di due compagni di classe, Yūho e Kunio, che lo invitano ad unirsi alla loro band. La musica di Kai, però, lo avvicina anche ad un personaggio del tutto inatteso.
Il film rappresenta un’importante chiave di volta per la carriera di Masaaki. Fino ad allora sempre dedito alla costante sperimentazione del suo stile, Yuasa sceglie di accasarsi in una messa in scena più calma e contenuta del solito.
Occhio, le scene alla Yuasa fatte di corpi molleggianti, rappresentazioni stravaganti di sirene qua più simili ai kappa giapponesi che alle loro forme mitologiche classiche, e momenti di pura bizzarria ci sono sempre.
Ma facciamo la conoscenza di un lato più pacato del regista e più vicino ai messaggi tradizionali dell’animazione moderna, che comunque non lascia ferma parte della sua inesauribile creatività.
Non a caso possiamo trovare alcune delle scene più bella della sua filmografia, come la prima sequenza di trasformazione dei pescecani, per capirci.
Un risvolto più sul Ponyo e sul Totoro miyazakiano da parte sua, in un’avventura sospinta dalla forza della gioventù e dalla critica al pregiudizio malriposto degli adulti, dove la musica diviene strumento d’unione e, come in tutti i suoi film, un elemento imprescindibile per rendere ancora più soave la sua regia.
In un mondo dove esistono le sirene è tanto assurdo che un ragazzino di campagna realizzi i propri sogni?
Due anni dopo, Science SARU e Yuasa ritornano con Ride Your Wave, l’insolita macchia marrone nell’iridescente quadro artistico del regista.
In sintesi, viene raccontata la storia d’amore tra due surfisti finita in tragedia nella maniera più classica possibile, con piccoli tratti di fantasia animata qua e là.
C’è anche poco da discutere sull’opera, dove Masaaki pare aver messo i remi in barca per farsi trasportare dal lento oscillare delle onde fino ad una sicura riva dove attraccare e riprendere il viaggio in terreni più tumultuosi, ma a lui più consoni.
Quest’inusuale tranquillità si percepisce lungo tutto il film, dove la sperimentazione e il grottesco spariscono per far spazio ad un colorato esercizio di tecnica non molto ispirato.
I tratti caratteristici dello stile di Yuasa si intravedono a sprazzi, come nel suo modo di far esplodere i sentimenti dei personaggi in scene di grande drammaticità, ma il fuoco ardente dell’autore non trova mai il suo momento catalizzatore.
L’opera risulta troppo sopita, facendo tristemente pensare ad un film mosso più dalla ricerca di un riscontro mediatico e popolare che da una volontà filmica. L’anime incassa bene al botteghino giapponese e mondiale, dando la possibilità di concentrarsi su altri progetti più interessanti.
Devilman Crybaby, la consacrazione
Nel 2018 c’è la grande occasione. Yuasa ed il suo studio Science SARU si sono consolidati in Giappone ed il resto del mondo comincia a sentire sempre di più il loro nome, ma l’occasione per legittimarsi al grande pubblico arriva con un grande progetto seriale di Netflix.
Nasce Devilman Crybaby, riproposizione in tempi moderni dell’anime classico del maestro Go Nagai, Devilman.
Stilisticamente, è l’opera meno orgogliosamente yuasiana, con il regista più controllato nella sua messinscena e nel suo eccesso sperimentale. Non va mai a forzare troppo la posizione della camera e, con sfondi perlopiù puliti e semplici, inusuale per lui, dà prova parziale del suo talento visivo.
Nonostante sia meno in pompa magna ed un progetto meno sorprendente degli altri, Devilman Crybaby rimane comunque un’opera sconvolgente per il panorama giapponese ed internazionale.
Con messaggi molti forti, Yuasa concentra il suo interesse più nel trasporre la poetica nagaiana al giorno d’oggi, non nascondendo le sue critiche verso il moderno sistema sociale giapponese e verso l’etica umana.
Un ordine collettivo corrotto fino al midollo, dove la prostituzione minorile e la violenta disparità sociale vengono lasciati proliferare dai potenti che dovrebbero combatterle, e dove l’instillare costante del seme del dubbio può portare a catastrofiche conseguenze.
Il regista prende a piene mani dall’immaginario visivo di Nagai, mischiando il suo gommoso stile di disegno agli orridi mostri dentati e tentacolari della storia di Devilman in un connubio raramente visto prima.
Il cinico, ma sempre speranzoso Yuasa si rivede anche nella delicata dicotomia tra i due protagonisti, Akira e Ryo. Il primo, il piagnucolone (crybaby) mascherato da demone, ed il secondo, il Diavolo vestito da agnello.
Due personaggi agli antipodi, legati da un’amicizia incomprensibile, ma talmente forte da trasportare lo spettatore per tutti i dieci episodi, fino all’eccellente finale, dove l’influenza di Go Nagai nel medium visivo di oggi si sente tutta.
Per questo Devilman Crybaby resta comunque un opera superlativa e imprescindibile per tutti, soprattutto per chi non ha mai avuto modo di incrociare lo sguardo con le opere di Nagai.
Il successo internazionale della serie Netflix permette al regista di arrivare dov’è ora, figura di riferimento dell’arte orientale e pronto a tornare nelle sale italiane con il suo nuovo Inu-Oh, un concerto visivo rock-folk ambientato nel Giappone feudale che, si spera, saprà ridare ancora più assurdità ad una vita come la nostra che ne è sempre meno avvezza.