Presentato fuori concorso all’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, e dal 4 aprile al cinema, Amor di Virginia Eleuteri Serpieri è un viaggio nella memoria di una figlia e di una madre sullo sfondo di una città, Roma, raccontata tra realtà e mito. Sperimentale e misterioso, perturbante e taumaturgico del film abbiamo parlato con la regista Virginia Eleuteri Serpieri.
Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2023 Amor di Virginia Eleuteri Serpieri è una produzione STEFILM, ERAFILM con RAI CINEMA ed è distribuito da STEFILM INTERNATIONAL

Amor di Virginia Eleuteri Serpieri
L’apertura di Amor è un’immersione sensoriale che, in qualche modo, anticipa la natura del viaggio compiuto all’interno del film.
L’inizio è un’immagine che avevo in mente da tempo, ancora prima di scrivere il film. Il volto che si compenetra con la natura mi serviva per comunicare da subito che il racconto della città sarebbe stato declinato in termini di dimensione umana e vegetale, con le foreste e i fiumi a rappresentare il volto dell’urbe.
La sovrapposizione di immagini diverse è una delle costanti su cui costruisci il film. La prima sequenza ne evidenzia un’altra, costituita dalla forza ispiratrice dei suoni a cui spetta il compito di generare le immagini. Non a caso in quella menzionata sentiamo prima il suono dell’acqua e solo dopo ne visualizziamo il contesto che lo origina.
Hai colto perfettamente il mio modo di lavorare. Il suono guida tutti i miei lavori, nel senso che è da questo che parto per creare le immagini. Il rapporto tra queste due componenti è molto stretto. Tieni conto che al Centro Sperimentale ho studiato tecnica del suono ed è da quella, dopo un percorso abbastanza tortuoso, che sono arrivata alla regia. Per me il cinema è l’unione tra immagine e suono. Anche senza quest’ultimo nel cinema muto le immagini avevano già una loro partitura interna, e comunque non riuscirei mai a concepire un’immagine senza il suono. Per me nasce tutto da lì.

Un viaggio
Il viaggio che compi all’interno del film è rappresentato in maniera concreta dalla ricorrenza di una scena, quella di te alla guida dell’automobile. Utilizzato in qualità di trait d’union dei diversi rivoli narrativi in cui si scompone il film, l’inserto ha anche un valore simbolico perché il senso di costrizione spaziale prodotto dalla ristrettezza dell’abitacolo diventa riflesso della tua condizione interiore. Non è un caso che al termine del tuo percorso, allorquando affermi che è ora di lasciare andare tua madre e le conseguenze del suo ricordo, ti vediamo uscire dalla macchina, lasciandola dietro di te. Il cambiamento di stato corrisponde alla scelta di ricollocarti in uno spazio molto più ampio e soprattutto esente dai limiti di quello precedente.
Sono felice che tu abbia colto perfettamente il disegno del film, costruito volutamente in questo modo. Anche la ripetizione continua di quell’inquadratura, sempre uguale e con nessuna variazione, doveva simulare innanzitutto il fatto che lo spettatore sedesse nel sedile posteriore, pronto a seguirmi in questo viaggio un po’ ripetitivo e ossessivo. L’idea era quella di rendere il malessere che ti impedisce di staccarti dal trauma e che ti fa ripercorre la stessa strada in maniera assillante, finché a un certo punto riesci a trovare qualcosa che ti libera. Per me l’abitacolo della macchina così striminzito poteva riprodurre l’isolamento del mio viaggio. L’automobile poteva anche essere un’astronave, una nave o anche la mia testa, con i finestrini come occhi. Poteva essere tante cose e tutte finalizzate a far sentire lo spettatore ancora di più dentro al mio pellegrinaggio.
Non sfugge il fatto che il momento in cui rievochi l’attimo in cui tua madre decide di smettere di vivere sia collegato all’immagine rovesciata della macchina, a sottolineare lo spaesamento interiore di tua madre, ma anche il tuo, nell’attimo in cui ripensi ai suoi ultimi istanti.
Sì, attraverso le immagini mi interessava comunicare il mio stato d’animo quando la notte della sua scomparsa la cercai mettendomi a guidare per le strade di Roma. Era estate, i parenti erano fuori città e io ero sola per cui quel viaggio è stato un delirio perché non sapevo assolutamente cosa fare. Un po’ per raccontare questo viaggio quasi folle di me in macchina mentre cercavo mia madre, un po’ per raccontare il mio trauma legato a questa esperienza e a una città che diventa all’improvviso infernale, Gianluca Abbate, artista visivo che ha collaborato alla fase di progettazione di questa scena, mi ha proposto di capovolgere l’autovettura e io l’ho trovata una soluzione perfetta.

Emozioni e sensazione nel film di Virginia Eleuteri Serpieri
Amor in effetti ragiona anche sulle diverse dimensioni dell’umano. In certi momenti il viaggio diventa una vera e propria allucinazione, come succede sul finire del film, quando quello che potrebbe essere il fantasma di tua madre cambia continuamente aspetto, segnalando l’alternarsi di realtà e mito visualizzato da una sorta di Eyes Wide Shut.
Mi fa piacere questa osservazione. Sì, era così, anche perché attraverso il film volevo raccontare il mio disagio, ma anche quello degli altri familiari che pur non vedendosi parteciparono alla vicenda. La sequenza a cui ti riferisci è il modo per visualizzare la maniera in cui vedevamo la depressione bipolare di cui soffriva mia madre. Lei aveva una personalità doppia e, da piccoline, io e mia sorella vivevamo questi cambi di umore repentini senza capirne il perché. Fino agli anni novanta se ne parlava pochissimo e si diagnosticava tale patologia come semplice depressione. Nessun medico, tranne l’ultimo, gliel’aveva diagnosticata, quindi abbiamo vissuto un’immagine che non riuscivamo a capire. Quella a cui hai fatto cenno per me rappresentava questo incubo.
Amor ha anche una funzione taumaturgica nel senso che è un film attraversato da energie, negative e positive, che poi sono quelle con cui ci si deve confrontare per elaborare il lutto in maniera corretta. Le discipline che le studiano ci dicono che l’unico modo per farlo è quello di passarci attraverso e non di combatterle.
Sì, mi piacerebbe che questo fosse il messaggio per lo spettatore. Quasi tutti hanno vissuto il trauma del lutto, meno persone magari l’esperienza del suicidio. Anche nel mio piccolo, però, e nella troupe stessa mi sono ritrovata con alcuni che avevano vissuto un’esperienza simile alla mia. Da qui ho sentito che Amor poteva essere importante non solo per me, ma anche per gli altri. Il cinema ha la forza di ricomporre ciò che è andato in frantumi: in questo caso l’esistenza di chi rimane vivo alla tragedia dei propri cari. Magari la persona non tornerà più in vita però puoi trasformare il dolore in qualcosa per cui valga la pena continuare a vivere.

Una sequenza esemplificativa
In effetti c’è una sequenza esemplare rispetto a quanto hai appena detto. Parlo dell’inserto in cui vediamo gli archeologi impegnati a ricostruire l’affresco andato in mille pezzi. In generale Amor usa un montaggio fatto per associazioni logiche in cui il legame tra una scena e l’altra non è subito riconoscibile e spesso mira a creare un circuito emotivo che permette allo spettatore di lasciarsi andare al viaggio senza volerlo razionalizzare.
Hai colto perfettamente il significato di questo documento d’archivio dell’Istituto Luce intitolato I monumenti della guerra, dove si vedono questi archeologi che dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale sulla città di Roma, e in particpolare sul quartiere di San Lorenzo, lavorano per ripristinare i danni subiti. San Lorenzo è il quartiere dove mia mamma era nata. Mia nonna non aveva più latte e non potendone comprare a causa dei bombardamenti non poté allattare la figlia e questo secondo i medici causò la patologia di cui poi soffrì mia madre; a dimostrazione di come la guerra mieta vittime anche in prospettiva.
Tornando alle immagini, a colpirmi erano stati questi archeologi vestiti come dei medici intenti a pulire con cura ogni pezzetto dell’opera d’arte per poi ricomporla. Ecco, questa cura è la stessa che ho avuto io nel cercare di recuperare e di rimettere a posto i pezzi della vita di mia madre, come giustamente hai compreso. Era un’immagine che doveva far capire tutto quello che ho cercato di fare e che fanno tutti quelli che sperimentano un lutto. Che poi corrisponde anche al mio modo di lavorare. Quando faccio un film ho un’idea: non parto da un racconto già scritto, ma da suggestioni. Da lì costruisco un archivio in cui raccolgo immagini di ogni tipo. Creo un atlante di cose e di suggestioni, poi, piano piano, cerco di trovare tutti i legami possibili.
Con questo film sono partita prima di tutto da un lungo lavoro di accumulazione di materiale famigliare. A questo ho aggiunto un archivio sulla città nel momento in cui, era il 2016, ho capito, scendendo nel fiume Tevere, che mia madre era lì, nel fiume, e poi in ogni marmo, in ogni erbaccia, in ogni scultura, in ogni muffa di quel luogo. A un certo punto ho sentito che morendo nel fiume si era dissolta nella città e dunque in ogni pietra di Roma. Da personale e privata la mia ricerca si è spostata sulla città. Da lì in poi ho cominciato a raccogliere tantissimo materiale su Roma, pensando che l’acqua, e con essa il fiume e le fontane, sarebbe stato il legame capace di unire questi ritrovamenti. Messo insieme questo materiale ho cercato di vedere tutti i link che potessero raccontare la mia storia attraverso l’immaginario di Roma, con la sua iconografia sempre legata all’acqua. È stato lungo e complicato però poi ho notato che si creavano dei punti di vista originali sulla città che mi hanno dato modo di raccontarla in maniera inedita.

Mito e realtà nel film di Virginia Eleuteri Serpieri
Nella sequenza in cui sovrapponi l’immagine della città a quella del paesaggio naturale crei quella doppia dimensione fluttuante tra realtà e mito dentro la quale ricostruisci la storia di tua madre. Il pianeta Amor si trova sotto le acque del Tevere che fungono da vaso comunicante con l’altra dimensione, dove immagini che tua madre venga accolta dopo la vita terrena. Ecco allora che parlare dell’autopsia di tua madre collegandola ai particolari di braccia e gambe di statue danneggiate dal tempo fa sì che quelle diventino il corpo di tua madre.
Sono felice che tu abbia colto questa associazione perché è difficile far capire questa cosa. Visitando alcuni musei mi sono accorta come queste statue fossero dei corpi morti, anche per il biancore della loro superficie. A volte mi piace vedere l’arte con un punto di vista non strettamente legato a questioni storiografiche in quanto non sono né una storica dell’arte né una archeologa. Quando le guardo ci metto molto del mio e vi interagisco anche tramite il mio lavoro. A un certo punto ho pensato di tradurre quella folgorazione nella scena in questione per far capire quanto ogni individuo abbia molto a che fare con le sculture della città. Fare arrivare bene questo concetto avrebbe avvicinato di più lo spettatore alle opere che lo circondano, facendole sentire come qualcosa di vicino a lui.
Quando ho fatto questo film sono riuscita a liberarmi dal mio trauma grazie alla città perché questa ha una storia così incredibile, con un immaginario così infinito di collegamenti da portare consolazione al mio trauma.
La dialettica tra mito e realtà oltre a rendere universale una storia privata come la tua, la mantiene anche in vita proprio perché associata alla città di Roma e ai suoi monumenti.
Sì, per me si è trattato di una sorta di restituzione per il dolore che ha accompagnato la vita di mia madre. Fatta a lei e alle migliaia di persone che sono morte nel suo stesso modo. La scena in cui vediamo sul fondo del fiume una serie di oggetti personali della gente che ha perso la vita gettandosi nel Tevere vuole restituire un’immagine che oramai appartiene alla città, alla pari dei monumenti: anche perché miti e leggende hanno a che fare con le esperienze umane, rappresentando il viaggio psicoanalitico di chi all’epoca non aveva altri strumenti e usava il mito come guida per superare un dolore. Il film mi ha fatto scoprire tante figure femminili della storia di Roma legate al Tevere. Penso a Clelia, a Rea Silvia, a Tuccia. Da lì ho capito quanto Roma fosse una città al femminile, prima di tutto nella sua architettura. Abbiamo avuto un urbanista, Paolo Micalizzi, i cui percorsi hanno mostrato come l’architettura romana, barocca in particolare, fosse in stretta relazione con la natura e quindi con l’eredità di pensiero di Giordano Bruno, per il quale c’era vita in tutta la materia.

La madre
Nel flusso di immagini la voce narrante è di volta in volta la tua e quella di tua madre. Il fatto di alternarla come foste la stessa persona mi sembra una scelta formale per ribadire la vostra unione.
Bella questa osservazione, non ci avevo pensato a questa cosa. In realtà sono io a farla parlare perché lei non ha lasciato nulla di scritto. Sia la voce sia la presenza dell’attrice che la impersona sono il frutto della mia proiezione. D’altronde il cinema è un’arte di fantasmi.
Parlavamo del cinema come psicoterapia. Il film è una proiezione di tua madre, ma anche un contenitore di cose che le appartenevano. Lo è persino nella struttura del dispositivo perché il fatto di impostare la narrazione facendola partire da fotografie riprende l’abitudine di tua madre per le fotografie che lei stessa amava scattare nei luoghi dei suoi “pellegrinaggi”.
Esattamente. Mi è venuto naturale farlo e questo fa parte dei misteri per i quali ti viene da credere a una vita oltre alla morte. Qualche mese dopo la sua morte presi il suo ultimo rullino, lo portai a stampare e vidi le sue foto. In mezzo c’era quella del fiume in cui si vede il giornale che di solito comprava. Non ho mai capito il significato di quella foto ma mi ha talmente turbata che poi, quando ho iniziato a raccogliere il materiale su Roma, quella è stata una delle prime immagini inserita nell’archivio, diventando il punto di contatto tra noi, come se il nostro sguardo sulla città ci unisse fisicamente, al di là del tempo e dello spazio.

Il tempo
Guardando Amor mi sono venuti in mente Un’ora sola ti vorrei che ha inaugurato la stagione gloriosa del documentario italiano e che ha molto in comune con il tuo film, e Svegliami a mezzanotte. L’idea è quella di un cinema italiano che finalmente guarda alle regie femminili in termini di arricchimento e dunque con meno diffidenza di un tempo.
Sono d’accordo con te, è un arricchimento. Per questo è prezioso che il cinema sia più aperto alla regia femminile. La dimensione domestica e famigliare è stato qualcosa che per questioni culturali la donna ha vissuto più di tutte. Per secoli è stata abituata ad avere questa relazione più intima con la casa, con i famigliari e con il corpo, aspetto che le donne hanno molto di più degli uomini.
In Amor il tempo occupa una parte importante della narrazione e tu ne dai conto attraverso l’impiego dei diversi formati. La fotografia sgranata dei filmini in Super 8 e quella pulitissima del formato digitale individuano di volta in volta passato, presente e futuro ma anche i diversi altrove in cui si svolge il tuo viaggio.
Penso che il cinema sia abbastanza anziano da poter riflettere su se stesso e dunque sulla sua tecnologia. Usare quest’ultima in materia narrativa è quello che ho fatto. Il super 8 per me era perfetto per raccontare il pianeta Amor perché, da una parte si collegava al tempo del ricordo e della memoria familiare, rappresentata appunto dai classici home movies; dall’altra i colori saturi e l’immagine sgranata in quattro terzi, non permetteva una visione completa, il che andava bene perché la visione del pianeta doveva rimanere parziale. Se così non fosse stato avrei invaso i sogni e l’immaginario dello spettatore mentre volevo essere delicata nel fargli vedere l’aldilà.
Il cinema di Virginia Eleuteri Serpieri
Parliamo del cinema che Virginia Eleuteri Serpieri ama.
I miei genitori, e in particolare mio papà, fin da piccola mi hanno trasmesso l’amore per il cinema. Ci facevano vedere di tutto, dal cinema italiano a quello americano passando per quello tedesco con Werner Fassbinder in cima alla lista insieme a Pier Paolo Pasolini. Poi ci sono Antonioni e Fellini, Pietrangeli che è stato anche un punto di riferimento per questo film con Io la conoscevo bene e Fantasmi a Roma, come pure L’amore in città, bellissimo film degli anni quaranta che mi ha ispirato negli episodi diretti da Fellini e Antonioni.
Un film che è stato la mia guida visiva è stato Under the Skin di Jonathan Glazer, regista che adoro. Per alcuni passaggi horror presenti nel film mi sono invece ispirata a Kiyoshi Kurosawa, colui che secondo me ha raccontato nel migliore dei modi la depressione.