Continuiamo il nostro approfondimento del poliziesco anni Settanta, con due vere chicche del genere, The Seven Ups (1973) e Report to the Commissioner (1975).
The Seven Ups (da noi Squadra Speciale) va annoverato tra i dieci polizieschi migliori del decennio. Nonostante questo, l’unica regia di Philip D’Antoni rimane poco conosciuta. D’Antoni è un nome cruciale per l’intero genere poliziesco, essendo stato il produttore dei capolavori Bullitt (1968) e del pluripremiato The French Connection (1973). Invece di sfruttare il successo mondiale del film di Friedkin con un seguito ufficiale, D’Antoni sceglie di realizzare una specie di spin-off. Se in The French Connection 2 (1975, John Frankenheimer) prosegue la storia di “Popeye” Doyle (Gene Hackman), The Seven Ups sposta la sua attenzione su Buddy “Cloudy” Russo (Roy Scheider). Il nome, probabilmente per ragioni di diritti, è Buddy Manucci, ma il personaggio è praticamente lo stesso. Non per niente il soggetto è opera di Sonny Grosso, il vero “Cloudy” e già consulente tecnico del film di Friedkin.
Scheider interpreta il leader di una piccola squadra di poliziotti, dai metodi discutibili, ma efficienti, sopranominati “The Seven Ups” (ogni arresto che fanno, porta ad una condanna di 7 o più anni). La loro esistenza viene tenuta nascosta al pubblico e gli altri colleghi non li apprezzano, ma dati i risultati raggiunti, i superiori sono disposti a chiudere entrambi gli occhi. Mentre i nostri sono sulle tracce di un gruppo di falsari, le loro indagini si sovrappongono con una serie di rapimenti, decisamente fuori dalla norma, dato che i sequestrati sono esponenti della Mafia. Manucci e il suo Team ben presto si trovano nel bel mezzo di tutta la faccenda, senza avere mai il quadro completo della situazione.
Con alla base una solida sceneggiatura, che tiene in serbo anche qualche sorpresa, e un buon cast di attori (tra cui il grande Richard Lynch, scomparso di recente), D’Antoni si mostra competente in cabina di regia. La parte più memorabile rimane senza dubbio il lungo inseguimento in macchina per le strade di Manhattan di ben 10 minuti, che non ha nulla da invidiare a quelli visti in Bullitt e The French Connection e che termina con un “omaggio” alla morte di Jane Mansfield (vedere per credere). Responsabile della lunga sequenza, nonché stunt driver principale insieme a Jerry Summers, è infatti ancora una volta il leggendario Bill Hickman, mentre gira voce che il montaggio sia opera di Jerry Greenberg (premio Oscar per The French Connection, qui anche tra i produttori) e non dei montatori del resto del pellicola, John C. Horger e Stephen A. Rotter. Anche se il film di Frankenheimer è un buon poliziesco, The Seven Ups può considerarsi il vero seguito di The French Connection. Un classico imperdibile.
Distribuito nelle sale una settimana prima de L’esorcista e de La stangata, ebbe discreti incassi, raccogliendo buone critiche, ma le attenzioni erano rivolte altrove, contribuendo così forse anche alla sua fama ristretta. Fatto sta che, subito dopo, D’Antoni cede i diritti de Il braccio violento della legge (insieme a quelli de Cruising, diretto poi proprio da Friedkin) e lascia il mondo del cinema. Firma poi un contratto in esclusiva con la rete televisiva NBC per una serie di collaborazioni che lo tengono impegnato fino al 1976, quando esce definitivamente di scena e si ritira a vita più agiata.
Piccola nota a margine. Da anni si vocifera di una theatrical cut più lunga, ma prove concrete che possano dissipare il dubbio non sono ancora saltate fuori.
Ancora più sconosciuto di The Seven Ups è l’interessante Report to the Commissioner. Diretto da Milton Katselas, il famoso acting coach (un personaggio che meriterebbe un approfondimento a parte), Rapporto al capo della polizia è strutturato come un episodio di Dragnet (storica serie radiofonica, poi televisiva, adattata anche per il cinema, creata da Jack Webb). Il film, tratto dal romanzo di James Mills, infatti è il resoconto (completo di voci fuori campo che specificano date, orari e eventi) di un incidente in cui una poliziotta viene uccisa da un collega. La recluta Lockley (Michael Moriarty) viene assegnata ad un caso di persona scomparsa, una ragazza che si fa chiamare Chicklet (una Susan Blakley dalla bellezza acerba) e che in realtà è una agente della narcotici in missione undercover. La ricerca di Lockley ha la funzione di fornire un background credibile alla ragazza, nel caso lo spacciatore sul quale sta indagando decida di fare controlli sul suo conto. Il problema è che i superiori di Lockley lo tengono all’oscuro di tutto e la giovane recluta, trovata la ragazza, ben presto tenta di “salvarla” dagli orrori della vita di strada. Il film di Katselas ha una trama leggermente contorta e non sempre logica. La struttura a flashback, inoltre, gioca a sfavore, in quanto la conoscenza di alcuni particolari fin dall’inizio, toglie forza ad alcune scene che seguiranno.
A parte questo, però, la pellicola si piazza facilmente sopra la media del genere. Innanzitutto, come The Seven Ups, è una di quelle pellicole che fungono da capsula temporale per ritornare nella Grande Mela degli anni Settanta, quella sporca e squallida di Panic in Needle Park (1971) e Taxi Driver (1976), nonché una schiera di altri polizieschi (e blaxploitation) del periodo. Lockley, in un certo senso, assomiglia a Travis Bickle, anche se non ne raggiunge i livelli di follia. Entrambi sono ossessionati e disgustati dall’immoralità che li circonda, ma mentre la ricerca di Travis è completamente immaginaria, quella di Lockley è una farsa dal sapore quasi kafkiano. Entrambi possono essere considerati anti-eroi, ma se Travis è un veterano del Vietnam, Lockley è figlio della contestazione. L’unica cosa sicura è che si ritrova a fare il mestiere sbagliato. Impaurito, instabile e dal cuore troppo tenero, alterna la disperazione a esplosioni di rabbia e comportamenti maniaci.
Moriarty ha tutte le carte in regola per questo tipo di ruolo eppure non convince del tutto, o meglio convince, ma c’è qualcosa fuori posto. L’interpretazione è troppo ovvia, troppo gridata, nella sua caratterizzazione del personaggio. Se la cava comunque bene, soprattutto con il sostegno di un immenso Yaphet Kotto, in una delle sue interpretazioni migliori (insieme a quella di Blue Collar di Schrader), e di Tony King nel ruolo dello spacciatore Stick. Ma è tutto il cast a essere di alto livello, con molti caratteristi conosciuti, tra cui William Devane, Dana Elcar, Hector Elizondo, Vic Tayback, Michael McGuire, Stephen Elliott e persino Richard Gere, al suo debutto cinematografico, nel ruolo di un magnaccia.
Come d’obbligo per il genere, non manca la scena d’inseguimento e Report to the Commissioner ne ha ben due, una più bella dell’altra. La prima, assolutamente unica nella storia del cinema, vede un mendicante paraplegico (interpretato da un forsennato Robert Balaban) su una specie di skateboard, inseguire un taxi per mezza Manhattan. La seconda, meno memorabile, ma altrettanto energica, vede Lockley rincorrere Stick. Prima sui tetti di Times Square, poi sulla 5° strada, per finire nell’ascensore di un centro commerciale (per essere precisi, il famoso Saks), per lo stand off finale, nel quale i due personaggi si tengono rispettivamente in ostaggio con le pistole puntate addosso. All’esterno, nel frattempo, le mosse della polizia diventano sempre più ambigue. L’intensità di queste due scene ci fa dimenticare anche i momenti leggermente meno riusciti del film, ossia quando l’attenzione si sposta dall’azione al “messaggio”, francamente un po’ moralista. Il finale, invece, desolante e cinico, rispecchia bene l’atmosfera del post Watergate (e in certi momenti, potrebbe essere addirittura interpretata come una parabola per quel periodo). Non si tratta di una storia, in cui il bene trionfa sul male e nel quale il cattivo viene consegnato alla giustizia, ma di un racconto tragico, in cui i codici morali vengono resi inutili da un sistema costruito sull’inganno e l’ambiguità.
Report to the Comissioner sta a metà tra il film poliziesco e il procedurale, anticipando serie televisive come Hill Street Blues e Homicide. Non sempre funziona, ma nei suoi momenti migliori si avvicina pericolosamente alle vette del genere.
Paolo Gilli