La visione (colpevolmente tardiva) di Cesare deve morire mi dà l’occasione di tornare sul tema del realismo cinematografico che già diverse volte ho affrontato in questa rubrica. Con questo film i Taviani hanno girato una storia di finzione che ricalca molto da vicino un fatto del tutto reale: l’allestimento del Giulio Cesare di Shakespeare all’interno del carcere di Rebibbia, con attori detenuti. La resa cinematografica è di finzione e non documentaristica in quanto le scene non sono catturate nel loro svolgersi naturale, ma vengono realizzate appositamente per il film. Oltre a raccontare il lavoro di allestimento del Giulio Cesare, si espone anche un intreccio di storie tra i detenuti che dobbiamo ritenere il frutto esclusivo della finzione di sceneggiatura. L’evidenza più forte del film riguarda la differenza di resa attoriale tra le parti “teatrali”, imperniate sul testo shakespeariano, e quelle “nuove” che chiamerò, per intenderci, “non shakespeariane”, scritte dagli sceneggiatori per raccontare le relazioni tra gli attori. Gli attori sono fortemente credibili nel ruolo dei personaggi del senato romano, seppur privi di un forte allestimento scenico e recitando ognuno nel proprio dialetto, ma lo sono decisamente meno nel ruolo di se stessi, ovvero di carcerati che inevitabilmente costruiscono relazioni, contrasti ed alleanze tra loro.
La buona resa “teatrale” manifesta con chiarezza che dentro l’animo di queste persone rinchiuse in carcere è presente una forte carica vitale che riesce a plasmarsi in credibilità attoriale, pur essendo privi di studi di recitazione. La cifra della loro credibilità risiede in un doppio viaggio che ci porta dall’antica Roma il senso della tragedia che vissero i congiurati e connota i personaggi teatrali con il senso delle tragedie personali che ogni attore ha vissuto nella sua vita segnata dal crimine. Ed è una manifestazione del genio shakespeariano che ha racchiuso in quei personaggi gli archetipi della tragedia che alludono direttamente ai miti ancestrali della società cui ogni uomo accede con l’esperienza della propria vita. E quanto più questa vita ha errato per percorsi eccezionali e vietati tanto più forte è la capacità di immedesimazione negli eroi della tragedia.
Pur detto questo, ci troviamo difronte all’apparente contraddizione di verificare come un dispositivo di per sé meno realistico del cinema, come è il teatro (seppur filmato), possa ottenere effetti di maggiore credibilità, in virtù di un patto con lo spettatore cui non si promette realismo ma (una) verità fortemente incardinata sugli archetipi, che fungono da mediazione tra lo spettatore e il meccanismo narrativo. Viceversa notiamo che nelle parti “non shakespeariane” la miscela che aveva dato vita al neorealismo italiano non produce lo stesso effetto di credibilità. Abbiamo attori non professionisti che recitano sostanzialmente se stessi ma appaiono artefatti, forzati. I testi che devono recitare sono brevi, di non eccessiva difficoltà e rappresentano anche un senso concreto, plausibile, quale ad esempio la similitudine tra un passo del Giulio Cesare ed una personale esperienza di vita o, più ancora, il diverbio tra “Cesare” ed un altro attore.
Si possono avanzare diverse possibili spiegazioni su tale disomogeneità di recitazione, quali, ad esempio, la debolezza dei testi e della messa in scena cinematografica o la sconnessione rispetto alla trama principale. E forse queste cose ci sono entrambe, eppure la risposta più convincente sembra provenire, seppur in ambito più incerto, dalla scena finale. La recita del Giulio Cesare è ormai terminata, uno degli attori torna in cella ed esclama che da quando ha conosciuto l’arte quella cella gli sembra una prigione. Qui la recitazione riacquista lo slancio di credibilità che aveva nella parte “shakespeariana”. È ragionevole chiedersi la spiegazione di ciò. E una possibile risposta mi pare possa risiedere nell’analisi di quella frase che contraddice un superficiale senso comune che vorrebbe sostenere che l’arte produce libertà. E, invece, in modo molto più immanente afferma l’arte è libertà e per chi libero non è diviene evidenza più forte della sua costrizione. Ovvero una frase in cui l’attore può credere ed anche lo spettatore. È, dunque, la verità per attori e spettatori l’altro elemento necessario per creare un’opera di realismo? La verità, scritta con la minuscola, immanente e sempre soggetta a verifica. A me sembra di poter rispondere affermativamente ed un evento minuscolo mi ha regalato una piccola conferma. Al termine del film, prima proiezione del piccolo cinema di seconda visione, mentre quell’ultima frase sull’arte e la libertà era ancora nelle orecchie degli spettatori, è partito un applauso, prima timido e sparuto nelle ultime file, poi più convinto e prolungato in tutta la sala. Quel cinema lo frequento da anni, e non mi era mai successo prima.
Pasquale D’Aiello