Man in Black di Wang Bing (Mrs. Fang, Youth (Spring) è un film documentario presentato in anteprima al Festival di Cannes e vincitore del Premio speciale nella sezione Frontier del DMZ International Documentary Film Festival.
Il film racconta la vita e l’opera di Wang Xilin, compositore, direttore d’orchestra e artista resistente, che è stato osteggiato, criticato e perseguitato nella Cina di Mao, malgrado il suo talento geniale.
Man in Black di Wang Bing è un film straordinario, che sublima la voce di due autori travolgenti che hanno, nel tempo, resistito alla censura, coltivato e conquistato una propria libertà artistica. Il secondo film di Wang Bing del 2023 è il rilascio di un grido feroce e poetico.

Man in Black di Wang Bing, la trama
Wang Xilin è un compositore e direttore d’orchestra cinese. Ha iniziato la sua attività dopo la guerra civile e negli anni Sessanta si è affermato come compositore di spicco. La sua franchezza e la sua aderenza agli ideali in cui credeva lo hanno condotto ad accusare pubblicamente l’inversione di rotta del regime di Mao. Per questo è stato condannato ai campi di rieducazione, dove i maltrattamenti subiti gli hanno causato la perdita parziale dell’udito. Malgrado questo, ha continuato a comporre, descrivendo anzi nelle sue opere il periodo storico e la memoria diretta delle sue esperienze più sofferte.
Wang Bing racconta di questo artista in un teatro fatiscente. Chiama il corpo nudo di quest’uomo di più di ottant’anni, a drammatizzare i maltrattamenti ricevuti durante le sedute di critica. Il documentario si divide quindi in una prima parte silenziosa e forte, in cui questo corpo viene esplorato e quasi violato visivamente. E una seconda parte in cui lo stesso uomo, ancora nudo, parla e racconta con rabbia non più trattenuta, il suo passato doloroso.
La genialità narrativa di Wang Bing si mostra quando la voce furente del suo protagonista viene piano piano sovrastata dalle sue stesse composizioni, che il musicista richiama per descrivere la storia da cui sono state generate. E così il racconto va di pari passo coi ricordi, la denuncia e l’ascolto sinfonico.

Una struttura narrativa d’autore
Wang Bing è fuori discussione una firma autoriale così affermata da permettersi, anche nel documentario, di stabilire un dialogo artistico sperimentale e fittizio. Ciononostante, si rimane nella sfera del documentario. Il regista non interviene sui fatti, ma sugli strumenti narrativi, scortando quindi il pubblico in una direzione altra rispetto al consueto linguaggio non da fiction.
Forte dell’assunto che di censura ne sia già stata imposta anche troppa a questo artista del suono, in Man in Black Wang Bing non limita nulla. Wang Xilin è nudo, cade, barcolla, si prostra, e poi si infuria. L’obiettivo lo esplora assillante, mai completamente statico, vertiginoso. E su questo, egregio il lavoro fatto da Caroline Champetier (Annette, Le ultime cose).
Sul palcoscenico libero e atipico in cui Wang Xilin si esibisce non poteva certo mancare un pianoforte. E quando le sue mani arrivano alla tastiera, sono richiamate nuove sonorità. La sua musica non è un viaggio semplice, così come non lo è stata la sua vita. Anzi, è piuttosto uno strumento di guarigione che, malgrado le atrocità, gli ha concesso di sopravvivere e non perdere il senno pur nelle continue torture subite.
Le composizioni di Wang Xilin infatti sono state, e sono ancora adesso, una denuncia contro il regime. Se non ci fosse stata la musica a lasciarlo parlare, sarebbe polvere come tanti dei suoi famigliari e il suo amato maestro.
My soul still bears the scarf.
Man in Black di Wang Bing è un dono a questa voce che ancora continua ad avere inspiegabile veemenza, malgrado tutto ciò che gli è stato tolto. Wang Xilin non ha più paura, i suoi stessi demoni musicati ormai lo difendono.
My work is full of mad men.