Wartime Notes di Barbara Cupisti, prodotto da Clipper Media con Rai Cinema, è stato presentato in anteprima fuori concorso al 9° Festival Internazionale del Documentario Visioni dal Mondo a Milano, alla presenza della regista e sarà trasmesso alle ore 23:45 su RAI 3 sabato 16 settembre.
Il film è prodotto da Clipper Media con Rai Cinema
Proprio alla regista di Wartime Notes Barbara Cupisti abbiamo fatto alcune domande sul documentario, sulle riprese e sulla situazione.
Wartime Notes di Barbara Cupisti
Ci eravamo lasciate e mi avevi detto che stavi preparando un documentario sull’Ucraina. Ed eccoci qui con Wartime Notes di Barbara Cupisti. Com’è stato vedere da vicino tutto questo per documentarlo in maniera precisa e diretta?
È stata una situazione particolare perché questo film nasce pensato in un altro modo. Stavamo montando il materiale di repertorio di Hotel Sarajevo, girato dalle persone, dai civili quando è cominciata la guerra e le immagini che ci arrivavano erano quelle dei cellulari.
Praticamente è stato come uno shift mentale. Malgrado fossero passati 30 anni le immagini erano le stesse che avevamo per Hotel Sarajevo e mi sono detta “com’è possibile che dopo 30 anni, nel cuore dell’Europa, siamo di nuovo in questa situazione?”.
Questo è stato quello che mi ha spinto a entrare dentro e andare a cercare la prima persona che si vede all’inizio del film, Tatiana. L’ho contattata anche perché lei organizzava la resistenza a Kherson, mentre adesso è sul fronte con i soldati. Io la volevo conoscere, ma mentre noi stavamo andando a Kherson proprio per incontrarla, lei è andata a Odessa e quindi il primo approccio con l’Ucraina è stato entrando dalla frontiera con la Moldavia verso Odessa. Quando siamo andati là era ancora un posto franco, c’era stato qualcosa, ma si viveva in un modo diverso rispetto al resto dell’Ucraina. Ovviamente era comunque una situazione assurda: l’idea era quella di entrare in un luogo dove c’è la guerra. L’unico momento in cui avevo avuto un contatto del genere era stato quando ho girato Madri, ero a Gaza con la guerriglia. Tutti gli altri conflitti li avevo vissuti quasi come se arrivassero dopo, avevo a che fare con le vittime di guerra, con quelli che scappano e che raccontano. Un conto, invece, è trovarsi in un posto dove sai che c’è qualcosa e da un momento all’altro può succedere di tutto.
Il primo allarme aereo che abbiamo sentito a Odessa è stato sconvolgente. Noi ci aspettavamo che succedesse chissà cosa e invece non è successo nulla. La gente era talmente assuefatta a quel tipo di situazione che continuano a fare la loro vita normale. Vivi costantemente con il pensiero, ma in modo diverso da come si potrebbe pensare. Sono diventati molto fatalisti in questo senso; la capacità dell’essere umano di adattamento a questo tipo di cose è incredibile. Capisci come l’essere umano sia capace di andare oltre. Ci si abitua a tutto.
Il film è fatto con una mini troupe (io e Sandro Bartolotti, produttore, ma qui anche in veste di operatore, e al massimo un’altra persona).
I personaggi
Nel documentario, come tuo solito, non ti limiti a parlare solo ed esclusivamente dell’argomento, ma approfondisci una parte focalizzandoti su personaggi e raccontando il tutto dal loro punto di vista. Come hai selezionato i personaggi principali?
Tatiana mi è stata indicata da una mia amica ucraina che sta a Varsavia. La prima chiamata che ho fatto con lei è stata per capire che lei parlava russo. E poi mi ha detto che i tanti problemi che ci sono potrebbero essere risolti in altri modi, non con la guerra. Anche perché quasi tutti loro hanno metà famiglia in Russia. Ucraini e russi sono quasi fratelli, hanno tutti parte della famiglia dall’altra parte. Quindi questa è una guerra particolarmente dolorosa perché tante famiglie si sono smembrate per questioni ideologiche stupide.
Vengono mescolate nel film immagini di repertorio e riprese fatte da te. Quelle più amatoriali sono state girate dai protagonisti del documentario? Sono state scelte da loro o li hai guidati e indirizzati in qualche modo nella selezione?
Molte di quelle amatoriali sono fatte da Tatiana. Quando l’ho contattata l’ho pilotata io, dicendole di mandarmi un diario con tutto quello che era in grado di vedere e di filmare, se possibile. Ed era pericolosissimo per lei. Avrebbe rischiato l’arresto. Le riprese che ha fatto quindi sono nate dalla mia direzione e dalla mia richiesta. Solo dopo è nato il progetto di questo video diario.
Il rapporto diretto di Barbara Cupisti con Wartime Notes
Alla luce di quello che mi hai detto, quindi, anche il fatto di rivolgersi a te direttamente iniziando i video con “Ciao Barbara” è legato a questa tua direzione dei filmati?
Io a lei avevo detto di fare un video diario. Siccome non amo essere all’interno dei miei lavori, il suo video diario doveva essere soltanto come la breve sequenza iniziale che riprende i carri armati. Successivamente, invece, ha cominciato a mandarmi anche gli altri video. E io all’inizio non sapevo che lei diceva “ciao Barbara” perché era in ucraino. Quando abbiamo cominciato a chiedere di tradurre quello che lei diceva ci siamo accorti che salutava me all’inizio di tutti i video. Da lì è venuta l’idea di mettere anche la mia narrazione perché mi era sembrato bello emotivamente avere quell’inizio. Il fatto di tagliare quel saluto avrebbe amputato una parte importantissima della narrazione. L’unico modo per mantenerlo era mettere un mio commento.
Infatti a me è piaciuta come idea e mi è sembrata efficace. All’inizio parli delle donne, anche se poi i protagonisti non sono solo donne; sembra che il documentario sia improntato verso uno sguardo femminile; sono le donne le protagoniste. Anche te, non solo regista, ma in quanto donna, avvalori questo fatto.
Sì, era legato al fatto che si rivolgeva a me. E abbiamo pensato di inserire la mia voce principalmente per quel motivo. Ma anche per quello che hai detto.
Rimanendo sull’argomento donne c’è una frase che mi ha colpito: Io credo che questa guerra la finiranno le donne. Penso sia un bellissimo messaggio che si ricollega sia all’inizio sia all’intento stesso del documentario, quello di far parlare le donne che non hanno voce in capitolo in questo.
È Natalia. Come tutte le donne ucraine, tante sono al fronte, ma tante sono a casa e cercano di ricostruire e ricucire fin da ora una società che sarà sbrindellata, tagliata e distrutta da questa cosa. Ci sono talmente tanti morti e perdite, insulse, come i genitori di Ivan. Il ruolo della donna è sempre stato quello di ricucire e ricostruire. In questo conflitto le donne sono fortissime e sono loro che portano fuori il messaggio e che vanno a combattere a suon di legislazioni, a fare conferenze in tutto il mondo.
Il marchio di fabbrica
Anche qui, seppur in maniera meno netta rispetto ai precedenti film (Hotel Sarajevo e My America), si intrecciano più storie, come fossero più capitoli che, come mi avevi detto, sembra quasi essere la tua firma.
Mi sta cominciando a scocciare (ride, ndr). Pensano tutti che non sono capace di raccontare una storia unica. Mi capita che quando sono su una storia non posso lasciare indietro le altre.
Ivan, per esempio, l’ho incontrato in Italia a Torre del Lago, al festival Pucciniano perché con il suo gruppo hanno portato una bohème con orchestra e cantanti sul palco, in forma ridotta, senza scene. Alla fine dell’opera hanno cominciato a cantare tutti l’inno. E lui penso sia proprio il cuore pulsante della storia e la vittima di guerra. Di solito sono le donne, invece qui è lui, che è un artista che ha avuto la famiglia massacrata. La sua storia mi ha colpita particolarmente.
A proposito di quello che hai detto nei tuoi racconti non è proprio possibile parlare di una sola persona, di una sola cosa e circoscrivere l’argomento.
No, infatti. Anche perché nei viaggi incontri le persone. E già si devono fare delle selezioni perché non si può inserire tutto.
L’arte curativa
Rimango su Ivan perché mi è piaciuta molto la scelta di unire la desolazione della guerra, ma soprattutto le conseguenze sulle persone comuni e sulle cose di tutti i giorni, con l’arte, rappresentata dalla musica, dal teatro, come a voler dire che può essere un mezzo per salvarsi, un qualcosa di curativo, giusto?
Sì, assolutamente. Anche in Hotel Sarajevo c’è una scena che fa da specchio alla situazione di Wartime Notes. Anche a Sarajevo rischiavano di morire per andare a teatro. L’assedio durò 4 anni e già da lì me ne ero accorta. La popolazione ha bisogno di avere una parvenza di normalità, anche se la situazione è sempre preoccupante. I ragazzi, per esempio, giocano a calcio. La sensazione è e deve essere quella di poter andare avanti. Anche la musica ha un potere enorme tanto che l’orchestra prova nei bunker.
Sì, infatti tra le immagini che ci venivano mostrate all’inizio del conflitto al telegiornale c’erano anche persone che si ritrovavano e si facevano forza cantando insieme.
Lui stesso dice che è riuscito a superare il trauma della morte dei genitori grazie al lavoro che fa. Per questo alla fine ho messo le immagini di distruzione mentre lui dirige perché è come se questo fosse il suo modo di combattere la guerra.
Riprese e musica
Un altro elemento tecnico che mi ha colpito è la scelta di fare delle riprese, ogni volta che veniva presentata una nuova città o un nuovo personaggio, mostrando delle lunghe strade che sembravano non avere una fine. Come se volessero sottolineare l’indefinitezza della guerra e lo smarrimento delle conseguenze.
Sì, e anche il fatto di raccontare questo paese. L’altra cosa strana che capita quando un paese è coperto da notizie del genere è che si vedono sempre determinate immagini. Per quello io non ho messo tante immagini di bombardamenti e distruzioni, solo verso la fine. Perché siamo anche un po’ assuefatti e non c’è solo quello, ci sono anche altri luoghi. Poi l’Ucraina è gigantesca. E quindi c’è questo senso di smarrimento, in queste lande incredibili.
Poi una curiosità è che la traduzione di Ucraina è terra di confine. È sempre stata in mezzo a tanti contendenti.
E invece una riflessione sulla scelta musicale che non è mai facile quando si parla di certi argomenti.
È sempre la stessa persona a occuparsene, ma l’ho tenuta a freno perché avevo l’esigenza che la musica fosse molto simile al contesto essendo tutto sottotono. Poi quando c’è la musica del teatro è ridondante perché non poteva essere qualcosa che sovrastava. Per questo ho voluto un pianoforte e soltanto pochi elementi. E sono felicissima del lavoro fatto. Così come il lavoro del sound design che è stato certosino perché tutto fatto a mano.
Barbara Cupisti oltre Wartime Notes
Prossimi progetti?
L’ho scritto un nuovo progetto, ma devo ancora parlarne per realizzarlo. La cosa che ti posso dire è che vorrei cambiare continente.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli