Da pochi giorni è disponibile su Netflix l’ultima fatica di David Ayer, The Tax Collector – Sangue chiama sangue. Un film che arriva dopo il successo di Fury e, soprattutto, dopo il disastro di Suicide Squad, e che vede il ritorno dello sceneggiatore e regista statunitense nel confortevole serraglio del crime, da sempre suo terreno elettivo. Quasi un ritorno alle origine, dunque, ma che fatica a ritrovare lo spirito delle opere del passato, adagiandosi nel solco di una storia prevedibile e derivativa, senza alcun guizzo inventivo.
Trama – The Tax Collector
David (Bobby Soto) e Creeper (Shia LaBeouf) riscuotono crediti dalle gang di Los Angeles per conto del criminale Wizard. Un sistema apparentemente infallibile e consolidato destinato però a scricchiolare quando dal Messico torna una vecchia conoscenza del boss, determinata a prendersi tutto quanto. A farne le spese per primo sarà proprio David che comincerà a temere per l’incolumità stessa della sua famiglia.
Ritorno alle origini (?)
Volendo si potrebbe insistere nel cercare le tracce e i tratti distintivi dello sceneggiatore di Training Day o del regista di Harsh Times e La notte non aspetta in questo The Tax Collector. Ma sembrano irrimediabilmente lontani i tempi in cui (forse immeritatamente) David Ayer veniva portato su un palmo di mano dal sistema hollywoodiano, prima che la sua carriera fosse drasticamente ridimensionata dal celebre flop del film della DC. È così che questo ritorno nelle strade di Los Angeles, tra gang criminali, codici d’onore e morti ammazzati, ha inevitabilmente il sentore di un’operazione fuori tempo massimo, un ritorno alle origini improvvisato e senza una vera ragione d’essere.
“Per mi familia vivo, per mi familia muero, per mi familia mato”
Basterebbe la filosofia di vita del protagonista David, del resto, per riassumere il film e darci un assaggio dell’orizzonte tematico e valoriale dell’intera operazione. Una storia dove, nemmeno a dirlo, i legami di sangue la fanno da padrone, regolando destini e condannando senza appello chi non rispetta le regole del gioco. Un determinismo visto sin troppe volte e portato qui da Ayer al suo grado zero, a una complessità quasi nulla, elementare come la recitazione di un interprete principale dal carisma inesistente che nemmeno uno Shia LaBeouf come al solito sopra le righe riesce a redimere.
Tra le macerie di un intero immaginario
Tutto pare già visto, in The Tax Collector. Da un antieroe scisso tra amore per la famiglia e spietatezza negli affari, a una banalità del male sottolineata a ogni occasione, tra scambi di battute che si vorrebbero stranianti ed esemplari ma che paiono null’altro che l’ennesimo, gratuito tarantinismo. Tra violenza efferata e villain dediti a sacrifici umani (!), va così in scena un romanzo criminale fuori tempo massimo, legato a un mondo e a un’estetica che non esistono più se non nella mente del suo autore. Macerie di un immaginario che ha inevitabilmente – e, forse, per fortuna – fatto il suo tempo.