Ava DuVernay, la prima regista afroamericana (è anche scrittrice, produttrice, regista e distributrice indipendente) a competere per il Leone d’Oro, e una delle pochissime cineaste ammesse nella sezione in concorso a Venezia 80, è una donna e un’artista dall’energia e dal carisma incontenibili. Da sempre lotta contro le disuguaglianze, contro il razzismo nella sua accezione più ampia, contro le differenze di genere e di etnia, ripercorrendo con le sue opere, in maniera chiara e documentata, i tanti momenti storici che hanno prodotto e perpetrato le differenze razziali.
Dopo film quali Selma – La strada per la libertà (2014), sulla marcia del 1965 per il diritto di voto agli afroamericani, e Nelle pieghe del tempo (2018), adattamento di un romanzo fantasy di Madeleine L’Engle del 1963, con un’eroina adolescente, e con documentari come XIII emendamento (13th), candidato al premio Oscar e premiato con un Primetime Emmy Award for Outstanding Documentary or Nonfiction Special (2016), Ava ritorna a Venezia con un film potente dal messaggio originale, oltre che visivamente e narrativamente coinvolgente.
Caste: The Origins of Our Discontents
Ispirato al saggio “Caste: The Origins of Our Discontents” dell’autrice Isabel Wilkerson, vincitrice con quest’opera del Premio Pulitzer nel 1994, Ava DuVernay segue il percorso esistenziale della scrittrice e, di pari passo, esamina con lei il sistema di caste mai svelato con chiarezza, che ha plasmato l’America e il mondo, collegando le più spaventose abiezioni umane (lo schiavismo dei neri d’America, la Shoah in Europa e il sistema di caste il cui gradino più basso è quello degli intoccabili, che devono immergersi nelle feci umane per liberare le latrine in India) ad un sistema di caste (non ‘solo’ razzismo, poiché le vessazioni si applicano anche all’interno della stessa ‘razza’), collegato ed unico in tutto il mondo, che afferma e giustifica la superiorità di alcuni a disfavore di altri, con l’unica motivazione di mantenere i propri privilegi.
“La mia esperienza nel realizzare Origin – racconta la regista – è stata un viaggio stupendo e complicato, che ha rivelato la sua bellezza sia nei momenti felici sia in quelli difficili. Il film ha cambiato il mio modo di pensare al lavoro e alla vita, all’amore e all’esistenza. Nel complesso, la storia della realizzazione di questa pellicola rispecchia il viaggio della protagonista all’interno del film. Isabel Wilkerson trova la bellezza nel coraggio, nell’ignorare i detrattori e nel trasformare il trauma in trionfo. Fortunatamente, l’ho fatto anch’io”.
Un processo collettivo, un’esperienza dinamica
L’autrice racconta, in conferenza stampa, di aver dialogato a lungo con la scrittrice prima di iniziare le riprese e di aver letto il libro per ben tre volte: l’indagine svolta in giro per il mondo, nelle biblioteche, negli archivi e nella raccolta di testimonianze di studiosi in tre continenti, alla scoperta del sistema delle caste e del suo lento affermarsi, va di pari passo con la storia personale della scrittrice, anch’essa estremamente interessante e drammatica. Dopo un presunto finanziamento da Netflix, Ava ha scelto una produzione indipendente.
“Non ho girato volutamente negli studios – ha aggiunto Ava – per poter scegliere attrici ed attori che volevo (ci sono attori molto rispettati che hanno lavorato duramente ma nessuno li conosce): ho avuto un cast di attori professionisti e di persone non professioniste, e la collisione, la combinazione delle due cose è quello che mi piace. In biblioteca abbiamo scelto il vero bibliotecario ad esempio. Questo crea una rete di umanità, di persone reali, ed un bel clima, favoriti dal montaggio e dalle musiche originali del compositore Kris Bowers. L’attrice che interpreta la protagonista, Aunjanue Ellis-Taylor, è una forza della natura, entra in scena e tutti fanno silenzio, è completamente concentrata nel personaggio: collaborare con un’attrice talentuosa e appassionata come lei è stato un regalo indescrivibile. Lo spirito di squadra che si è venuto a creare con il mio socio di produzione, Paul Garnes, con il direttore della fotografia, Matt Lloyd, e con il montatore, Spencer Averick, e con lo studioso Suraj Yengde è stato fonte di grande gioia”.
Un’arte che immagina il futuro, sfidando le strutture dominanti
Le hanno detto, in USA di non mandare il film ai Festival europei, a Venezia, come registi di colore dicevano ‘tanto non interessa a nessuno la vostra storia, lascia stare’. Per 80 anni c’è stata una assenza dei registi di colore nei Festival, ma “l’unico modo per combattere questa idea è fare le cose e non ascoltare le voci”. Il film è stato girato in soli 37 giorni di riprese, grazie anche ai bravissimi tecnici e al direttore della fotografia, ed è stato un processo ‘molto emozionante’.
“L’arte deve immaginare il futuro – conclude Ava – sfidando le strutture dominanti del potere e può aiutare a immaginare mondi nuovi, come artisti, dove si applichi la giustizia sociale: per molti il passato non è mai finito, il Dna di certe persone non è mai cambiato, dobbiamo riconfigurarci e cambiare per le comunità e per noi stessi. Sono convinta che nel cercare la giustizia noi possiamo utilizzare anche l’arte, magari per andare controcorrente. L’arte richiede immaginazione per creare un nuovo futuro”.