‘Una sterminata domenica’ di Alain Parroni. Da Venezia sezione Orizzonti
«Volevo mostrare la periferia del linguaggio e i sentimenti della provincia». L'opera prima del regista romano è un ritratto generazionale dalla struttura narrativa imperfetta, ma di forte impatto estetico. La pellicola ha vinto il Premio speciale della giuria Orizzonti 2023 e arriva al cinema distribuito da Fandango.
Una sterminata domenica è stato presentato nei giorni scorsi alla rassegna al Cinema Farnese, Nuova Onda-Arthouse, ideata da Luca Arcangeli e Fiaba Di Martino, che valorizza le opere prime dei registi del cinema italiano.
Il film ha vinto il Premio speciale della Giuria Orizzonti a Venezia 80 ed è l’opera prima del giovane Alain Parroni. Un film sofferto, a lungo desiderato, che intende raccontare una precisa generazione, quella dei millenials e in un luogo specifico, la provincia. Il regista lo fa attraverso la storia dei tre protagonisti e delle relazioni che intessono. Ma soprattutto, si munisce di un’estetica che domina la pellicola, insieme all’omaggio appassionato alla storia del cinema.
Nel cast principale Enrico Bassetti è Alex, Federica Valentini è Brenda e Zackari Delmas è Kevin. Quarto protagonista del lungometraggio è la colonna sonora scritta dallo straordinario Shirō Sagisu. Il film ha una produzione internazionale, tra cui ricorre Fandango, Alcor, Road Movies (fondata dal regista Wim Wenders) e Art Me Pictures.
Brenda è incinta. Alex ha appena compiuto diciannove anni e sta per diventare padre. Kevin riempie la città con il suo nome. Ognuno tenta di lasciare il proprio segno nel mondo. Una catena ininterrotta di situazioni, paradossi e caratteri si alternano fra loro in una costruzione narrativa vicina a un anticonvenzionale romanzo di formazione. Sempre connessi tra loro, ronzano tra la campagna del litorale e la città eterna, tentando di resistere a proprio modo all’inesorabile avanzare del tempo e del caldo. Le singole esperienze che Alex, Brenda e Kevin vivono non sono una sequenza casuale di avventure, bensì gradini sulla scala del processo di orientamento, di crescita e maturazione. Le avventure sentimentali e la conquista dell’autonomia fanno da perno alle situazioni in cui Kevin e Brenda si invischiano, agendo d’istinto ma catalizzando passo dopo passo la corsa al grido “IO ESISTO” di Alex.
Dalla storia al commento del regista
Le giornate di Kevin, Brenda e Alex scorrono dense di noia, ammucchiate come un unico tempo, dilatato e ripetitivo, talvolta surreale. Il tessuto narrativo è fioco o appena accennato. Li scopriamo assecondare gli attimi, fare gesti incomprensibili, condurre conversazioni profonde. Una scelta stilistica quella di tracciare una trama sottile, al fine di lasciare spazio al racconto per immagini e portare lo spettatore dentro l’oggetto raccontato.
Afferma Parroni:
La mia generazione è una questione di linguaggio. Raccontare la propria realtà nel 2023 è un atto tenero e prepotente che implica affrontare le profonde ambiguità, gli stereotipi e le contraddizioni della società mediatica in cui si è cresciuti. Se vivi in campagna, a trenta chilometri da una delle più antiche città del mondo, sei comunque inondato da pellicole hollywoodiane, pop e anime giapponesi, dalla fotografia di massa, nonché da film di autori sconosciuti, scaricati da server remoti e sottotitolati approssimativamente. Alex, Brenda e Kevin non sono altro che il sogno di un adolescente preoccupato che si addormenta con lo smartphone in mano davanti alla TV accesa a tutto volume.
Gli attori protagonisti in una scena del film.
Questi eterni giovani in un eterno presente in realtà stanno cercando tempo e spazio per crescere. Una dimensione ovattata e poco gentile nella periferia romana rallenta questo processo, fino ad accelerarlo bruscamente alla fine. Il film di Parroni s’incunea tra le pieghe di un cinema dai codici meno accessibili, ma che antepone lo sguardo alla scrittura come unico centro drammaturgico.
Il doppio binario semantico su cui gioca il titolo
Se a tema è una generazione e i suoi margini – intesi come confini che aprono e emarginano – Parroni sembra volerlo semplicemente mostrare. In questo senso, Una sterminata domenica è un’immersione estetica dentro la vita dei tre protagonisti. Le inquadrature, il montaggio e i giochi di luce (fotografia di Andrea Benjamin Manenti) sono elementi di sperimentazione e dominio nella pellicola, ma anche di congiunzione con un cinema ruvido, dallo stesso Wenders a Garrone.
Se l’estetica è il punto di vista privilegiato da cui narrare quanto accade nel film, il rischio è l’esaltazione edonica degli aspetti che contraddistinguono maggiormente la generazione oggetto del lungometraggio. Già nel titolo, Una sterminata domenica pare giocare su questo doppo binario semantico. Da una parte, i protagonisti stressano il tempo, che smette di esistere per coincidere esclusivamente con il qui e ora. La pellicola dunque eccede, creando nello spettatore l’illusione che ci sia bellezza nell’oggetto del racconto. L’estetica del lungometraggio agisce così sull’audience, permeandone il nodo centrale e “tradendo” la volontà, a monte percepibile nelle intenzioni del cineasta, di sospendere il giudizio nel raccontare la storia. L’attribuzione di positività si disperde nella fase finale del film, lasciando spazio alla disperazione come altro senso intrinseco nell’aggettivo “sterminata”.
Nonostante i presunti tentativi di astensione sentenziale, nel suo epilogo la pellicola mostra tutta la sua potenza visiva e narrativa. E lo fa nell’escalation di dramma in cui appare forte e feroce l’etica del racconto, impossibile da celare se si pensa all’oggetto/soggetto della storia. E va bene così. È quando arriva questo “smacco”, questa piccola grande crepa nell’intenzioni del regista, che il film va a segno. Perché credere in qualcosa è impegnativo, ma anche fare in modo che lo spettatore lo senta.
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