Passato in anteprima mondiale durante la Settimana Internazionale della critica Life is not a competition but I’m winning è l’opera prima della tedesca Julia Fuhr Mann.
Il film è ora al Festival del Cinema tedesco.
Festival del Cinema Tedesco | (festivalcinematedesco.it)
Si tratta di un lavoro atipico e al tempo stesso urgentissimo che attraverso lo sport fa dialogare passato, presente e futuro. Un collettivo di atleti queer entra nello stadio Panathinaiko di Atene per ricordare coloro che non hanno mai potuto far parte dei giochi. I futuri atleti si immergono nelle immagini d’archivio dei giochi olimpici per scrutare con i propri occhi quanti erano assenti. Grazie a sport, musica e un sopraffine atto di denuncia politica, Life is not a competition è un documentario radioso e molto apprezzato durante la rassegna.
Qui per la recensione.
Intervista a Julia Fuhr Mann
Nel film ci si chiede «se la Storia è scritta dai vincitori, che ne è di coloro cui non è stato mai permesso di partecipare alla gara?». A tal proposito, quanto contano la condizione sociale e le categorie nel determinare la nostra vita?
Io non amo parlare di categorie in particolar modo nello sport, perché molte persone non collimano con queste categorie. E questo può essere molto drammatico. Io penso che le persone non vogliono mescolare i generi perché hanno paura di perdere qualche forma di potere.
In questo documentario, creatività e denuncia politica sono perfettamente bilanciati. Come ti è venuta in mente l’idea di inserire gli atleti nelle immagini d’archivio?
Si pensa che la storia sia oggettiva e che rappresenti l’unica prospettiva. Credo invece che tutto dipenda dall’orientamento dello sguardo. Anche questo purtroppo è dominato dal punto di vista dei vincenti. In questo senso, ho voluto cercare di “cambiare” la storia, portando gli atleti direttamente nel passato, per vedere quello che è successo.
In Life is not a competition, tu non insisti sul dolore di queste persone. Nient’affatto. Tu mostri un gruppo coeso di persone che hanno la certezza di essere il futuro dello sport. Poteva essere un aspetto critico del film. Come lo hai maneggiato per arrivare a questo risultato?
Molti documentari si concentrano sulla sofferenza e manifestano come funziona il mondo. Ma nel lungo periodo questa ripetizione rischia di essere ridondante. Le persone continuano a piangere e per me può essere qualcosa di distruttivo. Noi, invece, volevamo certamente mostrare le circostanze, ma con l’utilizzo dello slow motion suscitare un senso di collettività e una spinta positiva verso il futuro.
Come hai lavorato con il suono e con la musica? Poiché è un elemento fondamentale del film.
Si, noi avevamo alcuni elementi nazionali ma intendevamo anche farli crollare, stravolgerli. Ci siamo avvalsi di un ottimo compositore che ha creato la traccia elettronica, realizzando qualcosa di completamente nuovo.
L’intervista si è svolta in lingua inglese ed è stata successivamente tradotta a scopo editoriale.
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