Andres Peyrot va oltre il registro classico e nella sua prima opera di lungometraggio mette in scena la descrizione di una complessa e sentita porzione della storia di un popolo, affidata all’incontro di uomini e culture differenti. God is a Woman, di cui Peyrot è regista e sceneggiatore, è il trionfo della volontà di raccontare scavalcando ogni barriera, che sia di linguaggio, di generazione o di tradizione. Un messaggio di cui si rende interprete il fiero popolo dei Kuna, gli indios delle panamensi isole San Blas, riuscendo a conciliare passato e modernità. God is a Woman, prodotto da Industrie Films e UpsideFilms è stato proiettato all’apertura della trentottesima Settimana Internazionale della Critica dell’ottantesima Mostra internazionale cinematografica della Biennale di Venezia.
God is Woman, la leggenda
Pierre Dominique Gaisseau, documentarista francese premio Oscar nel 1962, è la chiave di volta di una storia che sembrava finita nel dimenticatoio o reclutata da qualche vecchia leggenda metropolitana. Nel 1975 Gaisseau, insieme alla moglie Kyoko e la figlia Akiko, decide di vivere, e filmare, un anno presso il popolo Kuna, nel villaggio di Ustupu, all’interno delle isole caraibiche San Blas, appartenenti a Panama ma fruenti di una certa autonomia giurisdizionale. Quando la produzione resta senza soldi una banca ne requisisce le bobine. Il film di Gaisseau per molti anni resta confinato nel dimenticatoio, finché non ne viene a conoscenza Peyrot, si mette alla sua ricerca e, spalleggiato dal recentemente scomparso professor Arystide Turpama, a cui, insieme ad Akiko Gaisseau, è dedicato il lungometraggio, infine ne ritrova una copia a Parigi.
Il suono delle immagini e l’ocularizzazione
La forza di un documentario passa quasi sempre dalla sua capacità di trasmettere qualcosa di particolare che vada al di là di una mera condivisione testimoniale. L’opera di Peyrot non si sottrae al compito, dimostrando una sensibilità attenta ed efficace. Il suono ambiente, i dialoghi, le immagini si fondono con il racconto e tra di loro agiscono in osmosi, riproducendo il senso dell’intera storia. La tecnica di ripresa si adatta a questo intento basato sul rimescolamento, sul richiamo, sull’allineamento verso un unico asse temporale. L’utilizzo dell’ocularizzazione interna primaria, singole immagini che portano con sé le tracce di qualcuno che guarda, e dell’ocularizzazione interna secondaria, con l’alternanza di due immagini che mostrano l’una il personaggio che guarda e l’altra ciò che è guardato, è fatto, con un’appropiatezza tale, da rendere l’occhio della macchina da presa pressoché invisibile e costantemente aderente alla narrazione.
L’incontro
Incontro è la parola chiave che struttura God is a Woman. Il lavoro di Peyrot è un crocevia di scambio, prima di tutto tecnico, poi culturale e spirituale. Sono tre i film che interagiscono tra loro, quello leggendario di Gaisseau, quello di due giovani fratelli di origine Kuna, intenti a scavare nella storia dell’indipendenza del loro popolo, come la riproduzione dello scontro del 1925 con i militari panamensi, e a realizzare una vera e propria sala cinematografica all’aperto per proiettare il ritrovato film del 1975. In ultimo c’è quello di Peyrot. È la pellicola che racchiude tutto, con il montaggio sapiente di Sabine Emiliani che la rende sovrapponibile alle altre due, fondendo il tempo dei ricordi con il tempo presente. La suggestiva musica di Grégoire Auger fa da collante e sottolinea opportunamente le pause e i punti di svolta più importanti.
Il Titolo
God is a woman (Dieu est une femme) è lo stesso titolo attribuito da Gaisseau al suo lavoro del 1975. Con esso il cineasta francese voleva sottolineare il ruolo dominante della donna nella comunità dei Kuna. In realtà, a detta dello stesso Peyrot, più che di una vera e propria società matriarcale, si può parlare di un’organizzazione matriacale che regola molte delle consuetudini del villaggio. È la donna che sceglie il suo sposo e decide della stirpe, ma il governo è comunque sempre affidato agli uomini. Resta tuttavia la presenza femminile attiva e determinante, ben più delle nostre civiltà occidentali, sottolineata anche dai caratteristici costumi colorati e sgargianti e dall’anello distintivo sul naso. Particolari che non sfuggono all’attenta macchina da presa di Peyrot e si sublimano nei ricordi e negli sguardi delle anziane del villaggio, felici di aver ritrovato, e visto, il loro film e il suo messaggio mai dimenticato.