‘Amleto è mio fratello’. La recensione

Quattro amici, un furgone ed un viaggio.

Comincia così la delicata storia scritta dal regista Francesco Giuffrè che indaga, con una sorprendente normalità, la fragilità della disabilità nel quotidiano.

Quattro amici che oltre ad essere tali sono attori, innamorati di Shakespeare alla follia, desiderosi più di ogni cosa di raccontare con la loro voce l’Amleto perché, come dice uno dei protagonisti Paolo, il drammaturgo inglese lavora con personaggi un po’ matti proprio come loro.

Questo atipico gruppo ci viene presentato, fin dalle prime battute del lungometraggio, con fermi immagine supportati da grafiche che paiono essere prese in prestito dalle pellicole tutte pallottole di Guy Ritchie riportanti nel dettaglio i “segni particolari” di ognuno dei protagonisti: dall’ x fragile alla sindrome di Down, dalle allucinazioni al ritardo cognitivo. Sappiamo fin dall’inizio chi sono i nostri attori, abbiamo le loro carte d’identità svelate, come se fossero un filtro necessario per guardare la realtà che Giuffrè ci propone.

Eppure, dopo pochi secondi ce ne siamo dimenticati: i dettagli, le patologie e le medicine necessarie spariscono rendendo vero protagonista questo scanzonato viaggio che corre, non con qualche incidente di percorso, verso l’idea di comprendere cosa sia realmente la libertà.

Il furgone

Un Van blu con riportata in bianco, su tutta la fiancata, la scritta “Matti…per il teatro”, questo il primo mezzo che il gruppo di attori decide di rubare alla propria compagnia per raggiungere Napoli dove un famoso teatro sta cercando qualcuno che possa rappresentare ed innovare Shakespeare nella città partenopea.

Quasi come un contrappasso il pulmino della compagnia viene a sua volta rubato ed i nostri attori si troveranno a saltare, di volta in volta, su mezzi differenti mescolando il loro tragitto con le vite ed i volti di figure che, in maniera proppiana, assurgeranno al ruolo di aiutanti in questa favola che fa della diversità il suo cavallo di battaglia.

Ad inseguire i passi, sempre troppo veloci, dei ragazzi ci penserà una composta Claudia Gerini che, vestendo il ruolo dell’investigatrice, verrà assoldata dalla compagnia per ritrovare, con grande ansia, i quattro fuggiti dal palcoscenico di casa.

Un on the road che non scalza mai il genere, pieno di strade differenti dall’asfalto bruciante ai terreni scoscesi quasi come a suggerire allo spettatore un parallelismo tra i percorsi che la vita solitamente prende per arrivare poi all’approdo finale, a volte inaspettato.

L’abilità di essere liberi

Il viaggio diventa pretesto, diventa metafora scalzando la leggendaria opera che per altro dà il nome al titolo del film per far riflettere lo spettatore su altro.

I 92 minuti sono un inno ed un invito alla comprensione di che cosa voglia dire essere liberi e quanto possa costare raggiungere tale condizione.

Una corsa non priva di ostacoli dove si respira costantemente il desiderio di tutti di essere sé stessi, di abbassare le maschere correndo verso una meta sognata ed alla fine arrivarci. Arrivarci perché il più grande insegnamento che il regista e gli attori, pescati da quel grand progetto che prende il nome di Teatro Patologico, consegnano allo spettatore è che alla fine al di là di tutti i percorsi, di tutti i furti, di tutte le medicine è che a Napoli in un qualche modo ci si arriva e la neve, che Paolone vorrebbe vedere almeno una volta nella vita, è sempre stata lì dall’inizio basta solo alzare lo sguardo verso il cielo perché tutti gli occhi puntati in su sono uguali senza essere per forza etichettati secondo carte d’identità predefinite.