Woody Allen, da quando è esploso il movimento femminista americano Me Too, a causa dello scandalo delle molestie ad Hollywood iniziate dal produttore Harvey Weinstein, si è visto annientato da vecchie accuse anni ‘90. Originate dall’ex moglie ed ex musa Mia Farrow su presunte violenze alla figlia Dylan. Entrando nel suo Monsters Dilemma.
Accuse mai provate e da cui, processualmente parlando, Allen è sempre uscito pulito. Prima che con il fenomeno Me Too esse venissero automaticamente identificate come vere. Non da un vero tribunale, ma da quello morale dell’opinione pubblica americana che decreta vita e morte dell’artista. Ed è così che Allen si è visto stracciare un contratto milionario da Amazon. Non ha potuto cercare fondi dalle grandi major, e gli è stata perfino negata la possibilità di pubblicare le sue memories in patria.
Caso diverso per un altro regista e cineasta indiscusso, il polacco Roman Polanski, condannato per stupro ai danni dell’allora tredicenne Samantha Geimer. E che da allora vive come una sorta di latitante che non può mettere piede negli Stati Uniti. Il suo caso è davvero strano. Perché, al netto di una violenza che effettivamente c’è stata, il giudice che lo accusò era personalmente interessato a infierire come condanna sull’esito della sentenza. E perché è il primo caso in cui uno stupratore, accertato dalla magistratura, viene pubblicamente perdonato dalla stessa vittima con cui istaura un legame di amicizia.
Disfarsi dell’arte – Monsters Dilemma
Ora però il dilemma che in questi casi bisogna porsi non è tanto relativo all’autore in sé ma alle sue opere. Anche se Woody Allen avesse violentato sua figlia da bambina, che dovremmo farcene di quello straordinario placetelling in bianco e nero che è Manhattan? E della sua travagliata storia con Diane Keaton riprodotta in una delle commedie romantiche migliori della storia del cinema, ossia Annie Hall? Dovremmo far finta che non sia esistita per un caso di molestia? Polanski invece sembra essere un reale mostro, almeno secondo i canoni giudiziari.
E dell’ innovativo Inquilino del terzo piano, di Polanski, cosa ne facciamo? E dello struggente Il pianista? Il punto è decidere se mostruose debbano essere anche le opere del mostro. O se effettivamente una esatta distinzione andrebbe operata. Il comportamento dell’uomo non dovrebbe e non deve intaccare l’azione del suo essere artista. Ed è questo scottante dilemma che la forza propulsiva della determinazione del movimento Me Too ha posto e pone ancora in essere con una certa gravità scandalistica.
Monsters Dilemma – L’immutabilità delle opere
Certo è che, alla ricerca frenetica di sbattere il mostro in prima pagina, contribuisce la difficoltà nel separare l’opera dal suo autore. E ciò accade perché, in molti casi, un film o un prodotto letterario è talmente dentro la vita di un artista da non poter essere separato da lui. Charles Baudelaire era quei fiori del male che tanto decantava. L’oscuro abisso della poetessa Sylvia Plath era perfettamente in linea con ciò che scriveva. Mentre Allen è proprio l’emblema di questa difficoltà nel separare uomo e artista. Così personale e intimo nel mettere sul grande schermo il suo rapporto con la Keaton, e così crudo e disincantato nel mettere in pubblico le sue nevrosi e le sue fantasie sessuali.
Ma se di certo la fatica a essere altro rispetto a ciò che si scrive o si mette in scena rende più difficoltoso il processo giustificazionista nei confronti del mostro, ciò non tocca la sua creatura. Perché l’artista racconta qualcosa nei confronti del quale ci si può immergere o no, essere d’accordo o avere reazioni di repulsione. Ma rispetto al quale noi spettatori o lettori assistiamo al suo pensiero, alla sua visione del mondo e alle sue tante identità o cambi di rotta. Perché è questo il compito dell’artista. Porre domande, interrogativi alla società. Come faceva Pasolini, del quale non era interessante, rispetto a ciò che ci trasmetteva, che andasse in giro di notte a trovare giovani prostituti. È l’assenza di moralità nella rappresentazione filmica che dovrebbe essere scevra da quella del suo autore/mostro nella vita reale. È l’idea stessa di dire qualcosa a qualcuno che rende l’opera immutabile e insostituibile.
La lezione morale che l’artista non deve dare
Indubbiamente il movimento Me Too ha avuto un grandissimo e prezioso ruolo nel portare alla luce un sistema hollywoodiano. Patriarcale e basato sull’omertà nei confronti del potente di turno. Ma ciò che cerca di fare è pretendere dalla singola opera una lezione moralista che l’autore non deve e non può dare.
Perché se Tarantino nei suoi film rende violenti e marginali i suoi personaggi afro, ciò non vuol dire che ha dentro di sé una propria morale razzista. Così come Damien Chazelle, dando a Gosling la parte di un pianista jazz bianco più bravo di John Legend, mica vuole instillare provocatoriamente nello spettatore una specie di apologia musicale di un’America ancora divisa nei blocchi suprematisti e in quelli della cultura black. Esempi che servono a esprimere e riconoscere il ruolo dell’artista oggi. Ostaggio della propria umanità e della filosofia morale contemporanea.