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‘Vecchio’. Il cortometraggio di Dino Lopardo

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In questi giorni è disponibile, su Raiplay, Vecchio. Si tratta del secondo cortometraggio diretto dal regista lucano Dino Lopardo, già autore dello short film Partecipare. Protagonista quasi assoluto è Leo Gullotta, attore eclettico e di grandissima esperienza. L’attore è risultato vincitore, per questa sua interpretazione, ai Festival Uno sguardo raro 2022 e a Tulipani di seta nera 2022. La pellicola, invece, si è guadagnata la diffusione sul canale Rai Cinema Channel grazie alla vittoria nel Festival Marateale 2022, sezione cortometraggi. La rassegna ha premiato anche Gullotta come miglior interprete con la seguente motivazione:

Corto in B/N che rievoca il crepuscolo della vita. Tracce di Umberto D. Di Vittorio De Sica; la sublime interpretazione di Leo Gullotta rende oltremodo la poetica della fine e tuttavia il sorriso accennato su di una rosa e della vita che si alterna ad un’altra.

Molte soddisfazioni per la produzione che include anche L’Avvelenata e Patroclo Film.

Genesi di un’idea su un tema molto attuale

Chi è felice nella solitudine, o è una bestia selvaggia o un dio. (Aristotele)

Questa è una delle due frasi che hanno ispirato l’autore irpino a perseguire verso un progetto dal forte messaggio sociale. Con questa idea, Lopardo arriva a parafrasare il filosofo greco, al fine di raccontare una ineluttabile realtà, soprattutto nel mondo occidentale – o, comunque, industrializzato.

La morte non arriva con la vecchiaia, ma con la solitudine. (Gabriel Garcia Marquez)

Marquez, per quanto parzialmente riconoscibile in una traduzione non brillante ‘ consigliata la lettura de La lettera di Gabo prima di morire in versione originale – rimane più attinente all’idea che viene poi sviluppata nel cortometraggio. L’oblio di un anziano che, fra una routine rassicurante e una consapevolezza amara, attende la visita della sua famiglia.

Il regista cela quasi completamente i componenti di tale nucleo e si ferma sul protagonista, su silenzi ed espressioni. Eccede su primi piani e su point of view che giocano con i riflessi di specchi, in una sorta di affabulazione dello spettatore. L’obiettivo è quello di dargli la sensazione di vedere in soggettiva e, allo stesso tempo, ritrovarsi in quella figura incerta, dai movimenti lenti e dallo sguardo quasi fisso. Per ricercare un auto-riconoscimento che annebbi la dimenticanza a cui si riferiva il poeta colombiano.

La grandezza di un maestro del cinema italiano

Tutto questo sarebbe stato molto difficile se Lopardo non avesse avuto a disposizione Leo Gullotta. Attore eclettico, con una carriera multisfaccettata che passa dai ruoli drammatici – come in Il delitto Mattarella (2020) – a quelli brillanti – ad esempio, in L’ora legale (2017) – non disdegnando la televisione. Ricordiamo che per anni ha lavorato, sia in teatro che sul piccolo schermo, con la compagnia del Bagaglino, per cui ha fatto le parodie di personaggi come Maria De Filippi e Raffaella Carrà – oltre che una importante attività teatrale e di doppiatore.

Gullotta mette a disposizione non solo le sue rughe, scrutate nel profondo dalla macchina da presa come ad accentuarne l’anzianità, ma anche tutta la sua espressività. Non usa un mezzo importante, la voce, ma ciò non inficia sulla profondità che riesce a dare al personaggio di Aldo. L’unica osservazione è l’eccessiva teatralità, frutto delle indicazioni registiche. Cosa che non succede, ad esempio, a Carlo delle Piane e Lando Buzzanca, protagonisti âgé della pellicola Chi salverà le rose? (2017), dove i protagonisti hanno una linea interpretativa ben marcata.

Come far perdere dei buoni presupposti

Anche la sceneggiatura influenza la rappresentazione dell’anziano uomo: una stesura che lascia tutto in sospeso, sia in merito al luogo – si deduce possa essere una RSA – che alla patologia dell’anziano – il quale può essere semplicemente logorato dall’età piuttosto che soffrire di demenza o Alzheimer, quest’ultime rilevanti ai fini del comportamento dell’uomo. La scena dei dolci ricorda, neanche troppo velatamente, quella presente in Mine vaganti (2010) solo che Özpetek ha portato la scena a compimento mentre qui viene interrotta.

Finanche il finale rimane decisamente influenzato da una scrittura che pare lacunosa, tanto che molti non colgono la sfumatura dei compact disk e della rosa finta che l’uomo maneggia. Tale elusione rende decisamente più fruibile e comprensibile il lavoro ma, allo stesso tempo, depotenzia la sua forza: a causa di ciò, non solo il compito di Gullotta diventa troppo alto, ma anche quello di Amelia Di Corso – unica altra interprete ricorrente – risente di un forte condizionamento, oltre che di un mancato approfondimento. Peccato, perché dietro il sorriso della donna si cela un mondo che non è messo a disposizione dello spettatore.

Perché vederlo

Nonostante una sceneggiatura non sufficiente, e andando oltre il fatto che la narrazione non centri il bersaglio, è indiscutibile che la tematica sia amaramente attuale e che la prova attoriale di Gullotta valga la visione.

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