Racchiudere Saverio Costanzo in una sintetica definizione equivarrebbe, in fondo, a ricondurlo all’interno di quegli spazi fisicamente circoscritti dentro i quali si muove gran parte del suo cinema. Eppure, un conto è quest’ultimo, un altro è il suo autore, senz’altro restio all’idea di confine inteso come limite narrativo ed anzi convinto sostenitore di quella libertà espressiva che costituisce il suo stesso punto di forza. La filmografia di Costanzo, infatti, si compone di pellicole molto diverse tra loro, di storie realizzate attraverso forme e linguaggi sempre nuovi e originali.
Se, dunque, da questo punto di vista non è possibile una reductio ad unum, risulta altrettanto evidente che il regista romano sotto l’aspetto tematico si muova su direttrici ben definite che trovano nei percorsi esistenziali, nei traumi personali e nel disagio interiore dei suoi personaggi (loro sì, ai margini) il vero punto nodale.
Costanzo è autore di un cinema di pura immagine che sublima emozioni e sentimenti attraverso la cura dell’impianto visivo, la raffinatezza della messinscena, la creazione di atmosfere cupe e inquietanti, spesso debitrici del genere thriller-horror. Si tratta di uno sguardo elegante e autentico che trova nobili ascendenti, tra gli altri, in maestri del calibro di Dario Argento, John Cassavetes e Roman Polanski, e che fa di Saverio Costanzo uno dei cineasti ad oggi più interessanti dell’intero panorama europeo.
I primi passi: Caffè Mille Luci, Brooklyn, New York e Sala Rossa
Classe 1975, laureato in sociologia della comunicazione, Saverio Costanzo dà dimostrazione sin dagli esordi del suo grande eclettismo mettendosi alla prova come conduttore radiofonico, autore di spot pubblicitari e sceneggiatore.
Il passo successivo è il trasferimento a New York dove, alla fine degli anni Novanta, trova lavoro come operatore per una società di produzione.
Sempre nella Grande Mela, il giovane Saverio, sulla scorta della visione dei lavori del grande Frederick Wiseman, realizza Caffè Mille Luci, Brooklyn, New York (1999), documentario ideato per la sua tesi di laurea, attraverso il cui sguardo racconta la quotidianità di alcuni italoamericani avventori del bar che dà il titolo all’opera. Strutturato in 60 mini-puntate di 10-12 minuti l’una, Caffè Mille Luci rappresenta un interessante studio etnografico dal carattere duplicemente innovativo: non si tratta, infatti, soltanto di una sorta di precursore delle moderne webseries, ma anche di un vero e proprio anticipatore di quei reality show destinati a conquistare la televisione degli anni Duemila.
Dopo un biennio trascorso negli Stati Uniti, il regista romano torna in Italia per scrivere e dirigere Sala rossa (2002), una docufiction anch’essa d’ispirazione wisemaniana (Hospital -1970-, Near death -1989-) ambientata all’interno del Pronto Soccorso del Policlinico Umberto I di Roma. Qui Costanzo, collocandosi nella prospettiva dell’osservatore partecipante, riprende per alcuni mesi il lavoro quotidiano del personale medico-sanitario alle prese con i casi più drammatici e disparati. Ne scaturisce un’opera interessante che finisce per imporre una profonda riflessione sul senso della vita e della morte.
Sala Rossa riceve una menzione speciale al Torino Film Festival 2002.
L’esordio nel lungometraggio fiction con Private
Che si tratti delle mura di un bar o di quelle di un reparto ospedaliero, le prime opere del regista romano già evidenziano chiaramente la sua predilezione per gli spazi conchiusi. È perciò naturale che anche Private (2004), il suo primo lungometraggio fiction, rispetti tali caratteristiche.
Il film, tratto da una storia vera, racconta del palestinese Mohammad (Mohammad Bakri), un tranquillo professore che, assieme alla sua famiglia, d’un tratto vede la propria casa invasa e trasformata in avamposto militare da parte dell’esercito israeliano. Sebbene quest’ultimo imponga ai suoi abitanti di abbandonare l’immobile, Mohammad decide di restare, relegato con la moglie Samiah (Areen Omari) e i cinque figli in una piccola stanza. L’uomo dà così inizio ad una resistenza pacifica ma inflessibile, deciso a difendere strenuamente ciò che gli appartiene. Non tutti i familiari, però, saranno d’accordo con le sue scelte ed i suoi metodi.
Una casa palestinese a metà strada tra un villaggio arabo ed un insediamento israeliano costituisce il nuovo spazio/confine delimitato da Saverio Costanzo per raccontare una storia coraggiosa e disturbante, a sua volta metafora dei patimenti di un intero popolo.
Private traspone intelligentemente dalla dimensione pubblica a quella privata il tragico conflitto israelo-palestinese per analizzarne da vicino dinamiche e meccanismi. Sotto la sua lente d’ingrandimento non finisce soltanto la convivenza forzata tra invasori e invasi, ma anche il duro confronto tra sodali da cui sorge una serie di domande: come rispondere alla violenza? Ricorrendo alla non violenza? Usando la forza? Fuggendo? Costanzo riflette sul punto attraverso le reazioni opposte dei membri della famiglia di Mohammad.
È tuttavia il dolore di tutti costoro a costituire il fulcro del racconto. Il regista romano opta per uno stile realistico che possa renderne plasticamente la consistenza. La camera a mano concitata è spesso concentrata sui primi piani, la fotografia sgranata contribuisce ad accentuare il senso di disagio di chi osserva, i forti chiaroscuri virano alla claustrofobia gli spazi angusti della casa dove si svolge quasi interamente l’azione.
Private riesce egregiamente nell’intento di portare lo spettatore all’interno di un incubo reale evitando facili espedienti retorici. E il messaggio pacifista che lo connota – suggellato da quel “Papà, adesso comincio a capirti” pronunciato dalla figlia Mariam (Hend Ayoub) nei confronti del saggio Mohammad – risulta sincero e credibile.
Proprio per questo, il lungometraggio ottiene un grande successo di pubblico e critica, e fa incetta di numerosi premi prestigiosi. Tra questi, il Pardo d’oro, la Menzione speciale della Giuria Ecumenica e il premio per la migliore interpretazione maschile a Mohammad Bakri al Festival di Locarno 2004, nonché il David di Donatello e il Nastro d’argento, entrambi assegnati nel 2005 a Saverio Costanzo come miglior regista esordiente. Private, inoltre, viene designato a rappresentare l’Italia agli Oscar 2006 come candidato al miglior film straniero, ma viene escluso dalla competizione poiché non recitato in lingua italiana.
L’opera seconda per il cinema: In memoria di me
A distanza di tre anni da Private, Costanzo torna in sala con il lungometraggio In memoria di me (2007), asciutto, raffinato racconto intimista tratto dal romanzo ‘Il gesuita perfetto’ di Furio Monicelli (ripubblicato nel 1999 col titolo ‘Lacrime impure’) in cui va in scena la storia di Andrea (un ottimo Christo Jivkov), un giovane di successo che, insoddisfatto del benessere materiale che lo circonda, decide di entrare in convento per iniziare un percorso di noviziato. Tra crisi e dubbi esistenziali, il ragazzo giungerà ad una nuova consapevolezza di sé.
Atmosfere misteriose e rarefatte, lunghi silenzi, immagini potenti e suggestive: con In memoria di me il regista romano dà conferma del proprio talento autoriale imbastendo una storia raccolta intorno alla dolorosa introspezione del protagonista, il cui isolamento fisico e spirituale finisce per riaffermare la “costanziana” predilezione per gli spazi circoscritti. Il risultato è senz’altro pregevole: Costanzo si dimostra versatile, elegante ed originale. E la pellicola, presentata al 57esimo Festival del Cinema di Berlino, finisce per vincere, tra gli altri, il Premio Flaiano 2007 per la sceneggiatura.
Il documentario Auschwitz 2006: per non dimenticare l’orrore dell’Olocausto
Sempre nel 2007 Saverio Costanzo torna al documentario curando la regia di Auschwitz 2006, esemplare viaggio nella memoria di 250 studenti delle scuole superiori romane in visita (nell’inverno 2006) al famigerato campo di sterminio nazista di Auschwitz/Birkenau. Li accompagnano alcuni sopravvissuti all’Olocausto che raccontano loro l’orrore e la brutalità delle violenze subite.
La solitudine dei numeri primi, trasposizione cinematografica del romanzo di Paolo Giordano
Nel 2010 il regista romano realizza il suo terzo lungometraggio di fiction cinematografica trasponendo in pellicola il romanzo di successo di Paolo Giordano intitolato La solitudine dei numeri primi. Costanzo mantiene intatto il titolo del libro, ma ne stravolge la struttura lineare frammentando il racconto attraverso l’intreccio di quattro diversi piani temporali.
Quella che va in scena è la storia dell’amicizia che lega Mattia (Luca Marinelli) e Alice (Alba Rohrwacher), due ragazzi segnati dal dolore sin dall’infanzia. Il primo è afflitto dai sensi di colpa per la scomparsa nel nulla della sorellina disabile, la seconda porta con sé i segni indelebili di un brutto incidente sugli sci. Isolati dai loro coetanei, Mattia e Alice stringono sin dall’adolescenza un rapporto speciale che, fondandosi sul riconoscimento del reciproco dolore, li aiuta, nonostante il trascorrere degli anni e le diverse scelte di vita, a tenersi in contatto e a mantenere vivo l’affetto. Un affetto dietro il quale potrebbe celarsi un sentimento più profondo. Eppure, proprio come i numeri primi divisibili soltanto per uno e per se stessi, entrambi sembrano destinati a restare soli e incompresi.
Come nel precedente In memoria di me, Saverio Costanzo punta decisamente sull’aspetto visivo per imbastire un racconto dalle tinte horror che in alcuni passaggi, specie musicali, sembra rievocare le atmosfere del maestro Dario Argento.
Il limes è esclusivamente mentale: Mattia e Alice sono rinchiusi nella prigione delle proprie sofferenze, confinati al di là di barriere emotive che non consentono slanci o passioni. E così i sentimenti soffocano dietro sguardi e silenzi, il corpo si trasforma in una sorta di rage room dove dar sfogo alle proprie frustrazioni.
La solitudine dei numeri primi procede per ellissi e implosioni. Costanzo realizza una pellicola dalle venature espressioniste che richiede ai due protagonisti una partecipazione faticosa anche dal punto di vista fisico: Marinelli è chiamato ad ingrassare di quindici chili, la Rohrwacher a perderne dieci. Si tratta di un impegno che gratifica soprattutto quest’ultima, vincitrice del premio Pasinetti alla Mostra del Cinema di Venezia 2010, nonché del Nastro d’argento e del Ciak d’oro 2011, entrambi come miglior attrice protagonista.
Hungry Hearts, storia di un’ossessione
Nel 2014, mentre è impegnato con la serie televisiva In treatment (2013-2017) basata sulle sedute di psicoterapia del dottor Giovanni Mari (Sergio Castellitto), il regista romano realizza il suo quarto lungometraggio per il cinema dal titolo Hungry Hearts, tratto dal romanzo ‘Il bambino indaco’ di Marco Franzoso.
Va in scena la storia di Jude e Mina (rispettivamente, Adam Driver e Alba Rohrwacher, entrambi premiati con la coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia 2014), due ragazzi che, dopo essersi incontrati casualmente nel bagno di un ristorante newyorkese, s’innamorano, si sposano e danno alla luce un figlio. Mina, convintasi che quest’ultimo abbia qualità speciali, lo tiene chiuso in casa per preservarlo dalle impurità del mondo e gli impone una dieta che ne impedisce la crescita. Accortosi del problema, Jude cerca di intervenire col sostegno della madre Anne (Roberta Maxwell). Le cose, tuttavia, prenderanno la piega sbagliata.
Pellicola low-budget dai molteplici registri narrativi, Hungry Hearts prende le mosse dal prologo umoristico e dai toni della commedia romantica per attestarsi su un dramma familiare dalle nuances thriller/horror. Una moglie di Cassavetes finisce così per incrociare Rosemary’s baby di Polanski: sono questi i riferimenti cinematografici più immediati di un’opera che torna a interrogarsi sul tema del disagio psicologico mettendo al centro l’iperprotettività di una madre per il proprio piccolo. Costanzo ne evidenzia manie ed ossessioni attraverso una messinscena inquietante e claustrofobica affidata ai pedinamenti della camera a mano e alle distorsioni delle ottiche grandangolari.
Come ne La solitudine dei numeri primi, i mutamenti fisici e i traumi del passato (quelli di lei: la precoce morte della madre, un padre completamente assente) sono al contempo sostrato e chiave di lettura di dinamiche fuori controllo. L’autore evita accuratamente ogni forma di giudizio, ponendo lo spettatore all’interno di uno spazio in cui la sofferenza dei protagonisti coincide esattamente – come in Private – con le mura dell’appartamento. È questo il nuovo confine/gabbia stagliato sullo sfondo di una New York indifferente e asettica in cui prende corpo un racconto all’insegna del too much love will kill you: troppo amore ti ucciderà. Eppure – sembra ricordarci Costanzo – si tratta sempre d’amore.
Finalmente l’alba: il quinto lungometraggio in concorso all’80esima Mostra del Cinema di Venezia
Terminate le riprese di Hungry Hearts, il regista romano torna a dedicarsi al già citato In treatment per poi passare, dal 2018, alla trasposizione per la Rai dei romanzi best-seller realizzati da Elena Ferrante. Nasce così la serie tv dal titolo L’amica geniale, una produzione di grande successo che dopo le prime tre stagioni televisive ha già in programma l’uscita della quarta.
Costanzo nel frattempo non perde di vista il cinema. Ed è così che nel 2023 realizza il suo quinto lungometraggio dal titolo Finalmente l’alba, racconto di una giovane comparsa (Rebecca Antonaci) che, nella Cinecittà degli anni ’50, vivrà una notte destinata a cambiarla per sempre.
Nel cast del film figurano anche Lily James e Willem Dafoe.
Finalmente l’alba è presentato in concorso all’80esima Mostra del Cinema di Venezia.
Leggi qui l’intervista di Taxi Drivers a Saverio Costanzo