Candidato alla Palma d’oro al Festival di Cannes 2002, aggiudicandosi il premio per la miglior sceneggiatura, Sweet Sixteen è un film di Ken Loach scritto da Paul Laverty. Si tratta del sedicesimo lungometraggio del regista britannico e di uno dei più sottovalutati della sua prolifica produzione. La pellicola è stata accompagnata dai sottotitoli sin dalla prima proiezione. Come gran parte dei film di Loach, gli attori dialogano in un dialetto locale, in questo caso la variante inverclyde di inglese e scozzese.
A suo tempo, Sweet Sixteen è stato vietato su larga scala ai minori di 18 anni, per la presenza massiccia delle parole “fuck” e “cunt”. Un vero peccato, sottolineato a gran voce dallo sceneggiatore Paul Laverty, poiché il film è un racconto di formazione o di “soglia”, che nasce dalle conversazioni che lo scrittore ha intrattenuto con i giovani dei luoghi raccontati.
Sweet Sixteen è prodotto da Alta Films, BBC Films, Road Movies, Film produktion, Scottish Screen, Sixteen Films e Tornasol Films.
Il lungometraggio ha entusiasmato il pubblico con una percentuale del 97% di recensioni positive su Rotten Tomatoes. Ha ispirato anche una canzone di Lucio Dalla dal titolo Liam, il nome del protagonista.
Sai cos’è l’iniziativa, ragazzo? Ridere alle battute del capo.
Ecco il neorealismo britannico dalle spalle forti. Dinanzi a film di questo tipo, lo spettatore non deve fare lo sforzo di capire dove si trova, di cosa si sta parlando, qual è il fulcro del racconto. Liam (Martin Compston) ha 15 anni e sbarca il lunario vendendo stecche di sigarette. Cresce al chiarore della sua mascolinità, diventa uomo mentre cerca di assicurare un futuro migliore alla sua famiglia. Sua madre (Michelle Coulter) è prossima all’uscita dal carcere, sua sorella Chantelle (Annmarie Fulton) è una mamma giovanissima alle prese con suo figlio Calum.
Martin Compston in una scena del film.
Posto sbagliato e carenza di strumenti. Il film segue l’avanzamento di Liam verso il peggioramento delle sue condizioni di base. Lo scruta mentre cerca le stelle nella melma. Lo spaccio di sigarette viene presto soppiantato da quello della droga e Liam si trova invischiato in dinamiche losche, insieme agli amici di una vita. Non esiste condiscendenza che non trovi giustificazione nell’obiettivo che eleva dal fango e porta a navigare tra le nuvole. Il crimine è presto legittimato. All’apparenza il sogno si avvicina, ma non è che un ulteriore passo falso, la conferma di una predestinazione sfortunata. Come una partita truccata in partenza, ogni volta non si è nemmeno al giro di boa e la catastrofe picchia forte tra le scapole di questo giovane uomo.
Sweet Sixteen | I dettagli di Loach
Prima e oltre la trama, Sweet Sixteen è l’ennesima prova di una voce identitaria, forte, cristallina. La pellicola è disseminata di questo palpito, che s’incunea nelle inquadrature caratterizzandole per la presenza di una cifra stilistica inconfondibile. Che si tratti di un angolo della casa di Liam, dei graffi sul suo volto o di un esterno, l’obiettivo è quello di offrire, nei limiti e nelle potenzialità del cinema, un racconto senza fronzoli, onesto nel suo indice di ineluttabilità.
Questo incedere persistentemente doloroso è il ritratto senza scampo di un ragazzo sul cui destino incidono il posto in cui è nato e l’appartenenza di classe.
Lo sfondo delle città industriali concorre ad aumentare il senso di desolazione in un gioco a specchio con l’animo di Liam. Eppure, come nei vasi comunicanti, Liam “restituisce” qualcosa di diverso, una poeticità tra dentro e fuori di cui l’origine si confonde. La dipendenza o la familiarità con lo squallore consente al giovane attimi di bellezza, di cui lo spettatore s’accorge.
Possiamo individuare in questo una sorta di antitesi ad un film che scorre lineare verso una fine annunciata, ma indubitabilmente agganciata al reale. Perché non c’è inganno nel sogno del fanciullo. Solo una spinta alla trascendenza, mentre l’immanenza tende a risucchiare.