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Pablo Larrain: il cinema dei vivi e dei morti, da Tony Manero a Venezia

Pablo Larrain è l'autore di alcuni tra i più bei biopic degli ultimi anni, travalicando il genere e riuscendo a farsi racconto universale

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Pablo Larrain, geniale cineasta di Santiago del Cile, porta a Venezia il suo ultimo film, El Conde (disponibile da settembre poi su Netflix), opera perfettamente in linea con la sua poetica che unisce pubblico e privato in un percorso cinefilo intenso e stratificato.

Il cinema è specificamente l’arte che sa raccontare, probabilmente melio di altre forme, la propria attualità, (ri)specchiando e (ri)flettendo quello che ha intorno.

Capita meno di rado però che un autore sappia raccontare con precisione e lucidità il suo tempo e specialmente il suo paese: Pablo Larrain è invece il lucidissimo, disperato, assoluto cantore della Storia del suo Paese, il Cile, con le sue contraddizioni, allargando via via lo sguardo fino ad abbracciare tutto il mondo.

Adattando di volta in volta il suo stile a quello che racconta, al registro dei personaggi, ma tenendo fermo il suo punto di osservazione grazie ad un’astrazione quasi onirica: movimenti di macchina bruschi e veloci, fluidità di ritmo, aderenza all’emotività delle persone sotto osservazione, sono le caratteristiche dei film di Larrain che si stenta a definire biopic, visto che la prospettiva non è mai lineare ma sbilenca, asimmetrica, mentre immerge i protagonisti in controluce, in un contrasto chiaroscurale che accentua l’allegoria politica.

Dopo l’esordio con Fuga del 2006, mai distribuito in Italia, il regista di Santiago del Cile esplode nei Festival con la trilogia antipinochetiana, ovvero Tony Manero (2008), Post Mortem (2010) e No – I Giorni Dell’arcobaleno (2012).

REALTA’ NECROTICA

Tony Manero trascina infatti lo spettatore in una realtà alienata e alienante, dominata dal terrore e dalla claustrofobia, che si personifica nel suo protagonista estraneo a qualsiasi forma di idealismo. Raoul Peralta -che sogna di essere (come) Tony Manero- è lo specchio di una realtà senza nessun riferimento morale o etico: ed è lo spartiacque di due livelli di realtà mescolati insieme senza nessun tipo di differenziazione.

Da un lato il Santiago del 1979 con la sua dittatura, il disfacimento decadente familiare e architettonico, il dolore straziato di un mondo che ti schiaccia: dall’altra, c’è invece una dimensione onirica, illusoria in quanto basata sulle illusioni, la realtà di Peralta che vuole imitare John Travolta e trascina la storia in un racconto di desiderio (malato). Perché quello del protagonista è un desiderio in negativo, che lo spinge a delinquere, che lo aliena da ogni forma di empatia o collegamento con quello che lo circonda, ignaro anche della dissoluzione del proprio sogno privato, perché Larrain mette in scena i residui di un mondo crollato che è incapace persino di ispirare bei sogni.

A questo punto (di non ritorno), non sono neanche più le efferate violenze di Tony/Peralta a colpire in faccia lo spettatore, ma l’atmosfera soverchiante di irreparabile soffocamento, di un’immanenza disperata e irrespirabile. Un’aria, un refolo di fetore che proviene dalle strade di un mondo dove la storia, il passato, le radici non ci sono più, non hanno più né senso né importanza, soppiantate da casuali riferimenti a sistemi televisivi con consequenziali arretramenti culturali e morali.

La bellezza e l’efficacia di un capolavoro come Tony Manero stanno tutte nella capacità di Larrain di analizzare strategicamente e da diverse prospettive le questioni politico-sociali più aberranti del regime politico pinochetiano, senza neanche poi il bisogno di accennare al fatto che il film parla contro ogni tipo di dittatura mondiale, che orchestrano la limitazione delle libertà perpetrando orrende ingiustizie. Tony Manero irrompe nel panorama cinematografico anche allo stile insolito del suo regista: è un biopic atipico, come si è detto, che ritrae il personaggio nel suo momento esistenziale più controverso, con stile audace e approccio intelligente e sottile alla sceneggiatura e al montaggio.

Nel 2010 arriva allora Post Mortem, corollario teoretico al film precedente che parte da un tavolo autoptico sul quale c’è Salvator Allende, o uno dei tanti corpi che soccombono al potere.

Un film splendido, un altro capolavoro forse persino superiore a Tony Manero, un’opera dura e dolcissima che mostra la violenza della solitudine mentre racconta lo strazio della guerra, di ogni guerra, pubblica e privata, fino all’ossessione amorosa.

Larrain struttura il film con ellissi narrative: Post Mortem si apre con una sequenza che anticipa il finale, e va avanti a singulti con reiterazioni continue, eventi traumatici che puntellano il racconto e che lo trasformano nella storia di un popolo e delle sue colpe, risalendo in cima all’origine della dittatura e svelando l’ovvio, ovvero che nessuna dittatura nasce dal nulla ma è un grimaldello per decifrare realtà ben più complesse.

Complesse come la vita, una vita che nelle sue pieghe più banalmente quotidiane è sempre legata e slegata dalla politica: il personaggio principale del film, Mario, e la sua controparte femminina, Nancy, non sono minimamente interessati alla politica, anche se le conseguenze del clima rovente del Cile li investirà con la forza di un maglio.

Lui continua però a compiere meccanicamente i suoi doveri, trasportando mucchi di cadaveri, lei sembra non potere volere nulla, incapace anche di volere amore: è così che Larrain mostra la potenza distruttiva del Potere che schiaccia tutto, e contemporaneamente prende le distanze dall’inutile dovere di dover testimoniare un evento storico complesso proprio come un cadavere che mette in evidenza le sue cicatrici mortali.

In questo modo, Post Mortem rivela una delle caratteristiche più potenti del cinema di Larrain e del suo sguardo, ovvero la capacità di osservare le superfici da una prospettiva diversa, inusuale, solo per poterne intuire il risvolto sotterraneo, la forma nascosta, il dettaglio che rivela la natura della metafora.

Guardando allora al passato per ripensarlo in filigrana, in controluce, attraverso i personaggi e le persone, insinuando l’inquietudine della crudeltà storica, evocando la verità sotto la realtà. Proprio come in una seduta autoptica.

FILM ARCOBALENO

Una volta conclusa la trilogia con No – I Giorni dell’Arcobaleno, nel 2015 esce Il Club (El Club, un gruppo di sacerdoti che per atti di pedofilia, comportamenti omertosi verso torture e omicidi del regime, vengono tenuti nascosti in una remota casa della Chiesa Cattolica, sorvegliati da una suora) e nel 2016 Neruda (che racconta la fuga dal Cile del noto premio Nobel) e Jackie (rigorosamente, racconta i giorni immediatamente successivi all’omicidio del presidente Kennedy); nel 2019 invece Larrain porta a Venezia Ema, racconto di una ragazza ai limiti della psicosi, poco compreso ma sempre in grado di scavare nel profondo.

Dove Jackie raccontava una donna capace di fondere attraverso i fatti della Storia un intero immaginario novecentesco femminile, Ema ribalta il segno e parla di una figura femminile anonima e anarchica, radicata nella confusione affettiva etica e sessuale del Nuovo Secolo. Un personaggio di illogica e purissima sensorialità.

È del 2021 un altro capolavoro assoluto, film fantasmatico che evoca gli spettri della politica come Tony Manero e Post Mortem: Spencer, rivoluzionaria rilettura degli ultimi giorni di Lady D.

DOPO LA MORTE

Post Mortem.

Con Spencer sembrano partire da qua (film e concetto) le ricognizioni di Larrain sul corpo e sul significato di alcune icone dell’immaginario collettivo: proprio a metà strada tra l’entomologia e l’autopsia abbiamo visto sopra come abbia indagato (sul)la morte degli ideali e dei sogni mostrando l’eviscerazione del mito: prima Pablo Neruda, poi Jacqueline Kennedy, arrivando a Diana Spencer (“una favola da una tragedia vera”, come dice la frase che apre il film).

Larrain prende allora Lady D ma decide di non raccontare quello che è successo, immaginando invece cosa sarebbe potuto succedere se quel corpo, quel totem, avesse trovato la forza di sfuggire al suo destino: Spencer è allora un tuffo nell’immagine emotiva su chi fosse Diana in un momento di svolta fondamentale. Un’affermazione fisica della somma delle sue parti che inizia proprio dal suo nome di nascita, Spencer.

Pablo Larrain è figlio dell’ex presidente dell’Unione Democratica Indipendente Hernán Larraín e del ministro Magdalena Matte. Non si va quindi troppo lontano dalla verità se si presuppone che sia questo il motivo fondamentale del perché, in ogni sua pellicola, sappia così perfettamente, così decisamente e anche così dolcemente, far coincidere il pubblico con il privato, mostrare gli inesistenti confini tra i vari significati del termine “politica” (dall’etimo fino ad ogni deriva populista), far vedere insomma che ogni decisione presa nell’intimo di ogni anima ricade inestricabilmente sul tessuto sociale che si condivide con gli altri.

La pazzia, il passato, un senso costante di oppressione, sono alcuni dei temi che la filmografia di Larrain porta nel suo dna: e li ritroviamo puntuali in Spencer, che declinati in un’ottica di vuoti geografici e fisici spettrali, tracciano un percorso sottocutaneo che esplode in una sorta di horror agiografico.

Senza tener conto della morte avvenuta 25 anni fa, il film fa coincidere tutto in un percorso che si fa fantasmatico (la tenuta natìa di Diana sembra una ghost house, e gli spettri del passato sembrano pesare su tutto il film), e che trova un baricentro nel mettere a fianco diverse suggestioni e diverse posizioni.

Paradossalmente poi, Spencer è un film che convince anche perché sembra perdere continuamente la traccia: pur se il regista decide di prendere un sentiero laterale, la declinazione che fa di Diana sembra costantemente in bilico sul non detto, insistendo su una sua fragilità e mostrando ripetutamente una coazione a ripetere che, sul lungo percorso, diventa grottesca, spaventosa, orrorifica (i suoi ritardi, gli attacchi di bulimia).

E poi, quel finale, che erutta come un magma liberatorio come quella fuga: che svela la natura finzionale del mezzo, il non voler essere banalmente (solo) un biopic, l’ostinata volontà di cercare il senso del mondo in un corpo morto.

L’opera diventa allora una straordinaria, vertiginosa, sghemba, appassionata riflessione sul cinema, indagando sul genere (l’horror) e sulla natura salvifica del cinema come atto morale, credendo ancora e sempre che il cinema (la fantasia, l’immaginazione) possano avere la meglio su una realtà che invece scivola verso il baratro.

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