Dopo alcuni cortometraggi (tra cui Cross, vincitore della Palma d’oro a Cannes 2011), Maryna Vroda, con studi di media e cinema a Kiev e a Berlino, prima al 76° Locarno Film Festival e poi al Trieste Film Festival racconta con Stepne l’Ucraina di un recente passato su cui ombreggia, nella povertà frugale, nella solidarietà per l’essenziale, nello sfruttamento dei nuovi ricchi, il passato dell’era sovietica e la sua partecipazione alla seconda guerra mondiale, attraverso la vicenda di lutto famigliare che iscrive in sé il volto consunto e insanabile di una nazione stremata ma non ancora perduta. Un’elegia della riscoperta nella perdita e della resilienza nella memoria per la sopravvivenza di una civiltà dove il conflitto in corso è un’assenza tangibile.
Anatoliy è un uomo sensibile e mite di mezz’età, chiamato nel paese natale per assistere negli ultimi giorni la madre malata, in un villaggio rurale lontano dalla modernità. Al funerale si riuniranno al suo dolore alcuni anziani abitanti, che durante le esequie ricordano il loro vissuto durante la seconda guerra e il regime sovietico, con racconti di fame e miseria. Raggiunge Anatoliy anche il fratello, più pratico e materialista, con cui il protagonista ha l’occasione di rievocare antiche storie famigliari e disseppellire il suo amore inconfessato per una donna. Terminate le ultime incombenze domestiche, Anatoliy riparte, ma qualcosa in lui è cambiato per sempre.
In Stepne (Steppe) già il titolo prefigura un elemento rilevante nella messinscena, quello dell’ambiente, indicando fin dall’inizio allo spettatore la strada di lettura da percorrere, come la carreggiata con cui si apre e si chiude il film (ma se prima vi è un fatiscente autobus a trasportare Anatoliy, nel finale deve e può percorrere l’itinerario sulle sue gambe). La cinepresa, infatti, pur focalizzandosi nel tessuto di ricordi di una piccola e umile comunità, sa integrare questo microcosmo di ripiegamenti interiori e malinconia in uno spazio naturale che diventa quasi un coprotagonista. Un paesaggio invernale, irrigidito, grigio, ma mai cupo o angoscioso, come se fosse un’emanazione dei vivissimi animi dei suoi personaggi, inseriti in questo proscenio di privazione naturale ed economica.
Con un taglio semidocumentaristico la regia filma e osserva un’umanità campionaria senza un regime di dissezione analitica, di fronte a una realtà che già si esplica da sé, con i primi piani rugosi e spenti dei sopravvissuti alla Storia, con le parole strascicate ma lucide di violazione, impoverimento, abbandono, conflitto e infine necessaria fratellanza. Sono gli anziani del villaggio che si fanno portavoce di un passato inalienabile e invece già prossimo all’oblio per la loro imminente scomparsa senza eredi testimoni, in un villaggio anonimo privo di nuove generazioni. I più giovani sono infatti solo adulti che avviano un’imprenditoria di famelico cinismo. Ha dichiarato in merito la regista:
Come artista, mi interessa il tema della scomparsa, della partenza e della separazione da quanto è prezioso. Il silenzio delle generazioni passate sulla propria storia ha fatto sì che creassi questo film – come per interrogare il passato sovietico del mio paese.
Maryna Vroda sa cogliere nell’intensità segnata dei volti, nella vivacità degli sguardi e nei gesti altruistici di condivisione l’eroismo ordinario di uomini e donne che con le loro cicatrici e la loro resilienza esprimono le luce e le ombre della vita stessa. È un cinema di pregnanza nella semplicità, che non casualmente ricorre ad attori veri e a non professionisti per comporre chiaroscuri tra verità e finzione, in un piccolo poema sulla forza dell’umile e quindi dell’umano nei rovesci del destino e del potere politico.
Le mansioni domestiche per una moritura, una frugale tavola imbandita, la polvere tra gli utensili in cantina, fotografie sbiadite e ritrovate: la macchina da presa di Stepne coglie il vissuto caloroso delle piccole cose, nel miracolato equilibrio figurativo di una fotografia smorzata ma non dimessa, nell’economia compositiva di long take e piani fissi che cadenzano una temporalità placida ma intensa, alle soglie dello scadere della Storia e allo scoccare dell’oblio.
Ma nella sequenza del disadorno convivio funebre Maryna Vroda si sofferma su due bambini che mangiano e giocano in cucina, mentre i vecchi discorrono di tedeschi e Armata Rossa: è un verso di speranza, di apertura all’avvenire, nell’eco di un’Ucraina spolpata e sofferente, ma tenace. E Stepne, che mai si prosciuga nel paternalismo più pessimista, si riserva un bagliore anche nella parabola di Anatoliy, nella riscoperta dell’amore sopito attraverso il suo contatto con la morte: una presa di coscienza che scorre metaforicamente in parallelo all’avvinghiarsi alla vita nella distruzione bellica vissuta dai suoi concittadini.