‘Painkiller’. La recensione della miniserie su Netflix
Dopo la serie Hulu "Dopesick - Dichiarazione di indipendenza" e il film "Tutta la bellezza e il dolore" trionfante a Venezia 2022, Painkiller offre uno sguardo ulteriore alla terribile epidemia da ossicodone che imperversa negli Stati Uniti dagli anni '80.
«Nella vita contano solo due tipi di uomini, i creativi e i venditori e questi ultimi sono i più importanti di tutti». Dal 10 agosto arriva su Netflix una storia che ha un tempo e uno spazio ben precisi. Si tratta di una vera e propria piaga nella società statunitense: l’OxyContin, il farmaco oppioide che ha generato più di 300mila morti per dipendenza e overdose.
Painkiller è una mini-serie drammatica creata da Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster, gli stessi di Narcos, e diretta da Peter Berg. I sei episodi si basano su due inchieste. Nell’articolo del New York TimesThe Family That Built an Empire of Pain di Patrick Radden Keefe e nel libro Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic di Barry Meier, gli autori scandagliano l’epopea dei Sackler e della loro Perdue Pharma, compagnia responsabile della promozione del potente antidolorifico.
Painkiller s’incunea nella scia autoriale di prodotti che di recente hanno affrontato le stesse vicende. Parliamo della pluripremiata mini-serie Dopesick – Dichiarazione di dipendenza attualmente su Disney + e del film-documentario Tutta la bellezza e il dolore (All the Beauty and the Bloodshed nella versione originale) di Laura Poitras, gratificato a Venezia 79 con il Leone d’Oro.
Quando una storia è così intessuta di realtà, i cambiamenti a scopo drammaturgico possono essere un rischio. Painkiller se li prende tutti, regalando allo spettatore un mix di documentarismo e finzione in una formula ricercata dal sapore popolare.
Painkiller, la trama
Stamford, Connecticut. La Purdue Pharma LP è un colosso farmaceutico a conduzione familiare esperto nella produzione di antidolorifici. Dopo il successo del MS Contin, un farmaco a rilascio controllato a base di morfina, l’erede dell’azienda Richard Sackler (Matthew Broderick) comprende che il prossimo step su cui concentrare gli sforzi è il “dolore come quinto segno vitale”. Fa dunque sviluppare un sistema a rilascio prolungato di ossicodone, che viene approvato dalla Food and Drug Administration nel 1995 con il beneplacito di Curtis Wright. La messa in commercio dell’OxyContin è il primo grande test riuscito di contaminazione tra una casa farmaceutica e il marketing.
Sarà solo l’inizio di una delle più gravi epidemie da oppioidi mai viste nella storia dell’umanità contemporanea.
L’adattamento televisivo dell’investigazione targata New York Times segue temporalmente nascita e apocalisse del fenomeno, intrecciando le vicende di coloro che ne furono coinvolti, in particolar modo le vittime. Si tratta di un campione rielaborato dal punto di vista drammaturgico, ma che ben rappresenta lo stigma di dolore marchiato su chi ha perso la vita e chi vi sopravvive.
Painkiller è il “ritorno” aderente ai fatti, alle scelte scellerate che ne derivarono e a tutto il dolore generato in quelli che si fidarono. Da raccontare più volte per esorcizzare una storia che si fatica a razionalizzare.
Painkiller, una serie dalla forte identità
Non risulta difficile capire perché gli showrunner di Narcos abbiano voluto dedicarsi a questo lavoro. Il posto è quello giusto. Painkiller appare sin dalle prime battute come un’opera dall’identità chiara. Vuole e riesce ad offrire allo spettatore un prodotto di facile fruizione, avvincente nella costruzione narrativa e asciutto nella sceneggiatura. Si distinguono, senza indugi, i carnefici dalle vittime. Gli attori che interpretano gli esponenti della famiglia Sackler, John Rothman (Mortimer), Sam Anderson (Raymond) e Matthew Broderick (Richard), vestono brillantemente i panni dei coloriti, malvagi e senza scrupoli uomini di business che hanno anteposto la ricchezza all’etica. Spicca Uzo Abuda come Edie Flowers, l’investigatrice in prima linea nel contrasto alle illegalità dell’azienda farmaceutica.
Uzo Aduba e Matthew Broderick in una scena della serie
Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster, nonostante le premesse comuni, si allontano dalla “punta di coltello” di Tutta la bellezza e il dolore e dalla tenuta dissacrante di Dopesick, e non solo per motivi temporali. Il duo privilegia la natura “televisiva” del prodotto e il rimodellamento complessivo al fine di ottenere una narrazione dichiaramente “consumabile” in velocità.
Painkiller, un confronto necessario con i suoi predecessori
Se lo spazio dedicato a Painkiller è giusto, cosa affermare sul tempo? Le vicende giudiziarie che hanno coinvolto Perdue Pharma sono tutt’ora in corso e la crisi umanitaria causata dall’Oxycontin conta centinaia di migliaia di vittime. Ha ancora molto senso raccontare questa storia, da ogni angolazione possibile. Tuttavia, il confronto con i lavori “meno destinati” alla popolarità, ma anticipatori e rivelatori sui temi affrontati è d’obbligo. In questo senso, Painkiller potrebbe non reggere il parallelismo. Non solo poiché Painkiller arriva dopo più di un anno dagli altri due. Dopesick ha la tempra dei costrutti autoriali e demistificatori, con un intreccio narrativo in grado di suscitare nell’audience un coinvolgimento emotivo da pelle d’oca. Il documentario di Laura Poitras è lirico e intensamente doloroso, come un’incisione a vivo di una ferita.
Di conseguenza, Painkiller pare ideato allo scopo di intrattenere. Usufruisce di una trasposizione che rappresenta, al tempo stesso, il punto di partenza autorevole da cui sviluppare la vicenda e la giustificazione alla mancanza di impennate creative non pervenute nel prodotto.
Ciononostante, la visione è altamente consigliata. Se l’intento di illustrare una storia così importante non è garanzia di qualità complessiva, la traccia divulgativa tra le pieghe drammaturgiche si coglie senza indugi. Resta allo spettatore tramutarla in un’occasione per approfondire una vicenda senza precedenti.