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‘Possum’ di Matthew Holness su Prime Video

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Possum è un film di genere horror psicologico del 2018 scritto e diretto da Matthew Holness, con Sean Harris nel ruolo del protagonista. Esordio cinematografico tra i più incisivi del panorama britannico e non solo, Possum è la trasposizione dell’omonimo racconto di Holness dal titolo Tales of Unease, che trae spunto dalle teorie psicanalitiche sul perturbante di Freud. Si tratta della storia di un burattinaio, che decide di tornare nella casa in cui è cresciuto per fronteggiare i suoi traumi infantili.

Comico, scrittore e attore ancor prima che cineasta, Matthew Holness è appassionato di horror. Precedentemente, è stato sceneggiatore e interprete della parodia horror di Darkplace di Garth Marenghi. In Possum, infatti, sono presenti chiari riferimenti ai maestri del genere, George A. Romero tra tutti, e all’espressionismo tedesco. La pellicola è stata lanciata durante l’Edinburgh International Film Festival e poi trasmessa al Brooklyn Horror Film Festival nello stesso anno. Ha ricevuto molteplici nomination e premi, con un plauso pressoché unanime di pubblico e critica, salvo qualche eccezione.

Prodotto da BFI Film Fund e Dark Sky Films. Disponibile su Prime Video.

Possum, la trama

Il pacco si aprì e venne fuori l’uomo Possum, dalle lunghe gambe nere. Figlioli, correte! Mangerà e soffocherà qualsiasi bambino senza una madre.

Nelle lande paludose del Norfolk, uno schizzatissimo e problematico burattinaio di nome Philip (Sean Harris, in Mission Impossible 2015 e 2018) torna nel suo luogo d’origine per affrontare i demoni del passato. Questo inquieto e logorante trascorso ha le fattezze di un cavernoso patrigno, suo zio Maurice (Alun Armstrong) e di un’entità mostruosa di nome Possum, un volto umbratile di uomo con zampe di ragno. Il fardello accompagna Philip nei suoi spostamenti senza meta, perennemente dentro una borsa di cuoio.

Sean Harris e Possum in una scena del film

Inizia da qui il viaggio visivo, sonoro e simbolico dentro la mente del protagonista, in un gioco al terrore che avviluppa anche lo spettatore. Puro sperimentalismo, palleggio tra impianto orririfico e surrealista, Possum mostra cosa significa farsi guidare dal grappolo di dolore di avanzo dal passato, che riporta, in ogni caso, al luogo di partenza. Mente e spazio esterno diventano allora così simili, un tutto informe che urla di pena in una trama enigmatica che attende la fine.

Possum, il citazionismo fatto bene

Aldiqua di una sinossi rarefatta che non costituisce il centro nevralgico del film, Possum è l’opera prima di un regista che non teme il rimpasto colto di una lunga tradizione letteraria e cinematografica di grande impatto audiovisivo e atmosferico. Dal sapore lynchiano, alle chiare affinità con Spider di Cronenberg o ancora al debito con l’editing di Roeg, passando per una confessione d’amore per Franz Kafka. Lo spettatore attento non potrà fare a meno di inciampare in un fare quasi ossessivo alla ricerca di queste tracce nella pellicola. In tal caso, si perderebbe l’unicità di scelte di impeccabile gusto stilistico. Non da ultimo, il sinistro oggetto-giocattolo Possum fa riecheggiare il gioiello australiano di Jennifer Kent, Babadook.

Se è vero che una seconda visione è doverosa, colpiscono sin da subito le sonorità allarmanti del collettivo The Radiophone Workshop, la fotografia sepolcrale di Kit Fraser e la scenografia dalle tinte umide e squallide di Charlotte Pearson. A rendere Possum un film dichiaratamente britannico cono le ambientazioni fisiche e aeriformi del dopoguerra. Lo stesso regista ha confermato di essersi ispirato a classici come Wampyr di George A. Romero, A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg o Nero criminale – Le belve sono tra noi di Pete Walker. Soprattutto con l’obiettivo di spingere l’audience al limite della visione, ribaltando le attese e trascinando chi guarda in un pozzo carico di follia.

In questo senso, si tratta di un horror atipico. Moviola e intimismo sono le caratteristiche peculiare della pellicola, con suggestioni terrificanti. L’incedere aggraziato nella regia e nell’opera tutta rende Possum un film antico, démodé nell’accezione più affascinante del termine.

Il potere dell’occulto di Possum

Quando Matthew Holness scrive il racconto parte dell’antologia horror The New Uncanny, non ottiene un successo letterario. Il compendio non fa centro per i temi o per il taglio stilistico. Punta su un approccio differente. Tutti gli scritti partono dal perturbante come fonte ispirazionale. Sigmund Freud ne parla per la prima volta nel 1919, in un saggio intitolato Das Unheimliche. Dalle parole dello psicanalista:

il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.

Si tratta di un concetto che ha pervaso letteralmente ogni campo culturale. Una teoria insondabile e al tempo stesso molto studiata, calata adeguatamente nella cifra identitaria di Possum. Il rapporto tra Philip e il suo doppio, altro e uguale a lui, è ossessivo e ambiguo. Uno sfoggio proiettivo dell’inconscio che tenta, da una parte, di liberarsi del mostro, dall’altra di trattenerlo, conoscerlo e proteggerlo. Questa massa raccapricciante è contemporaneamente intima e estranea, e talvolta può addirittura sovrastare l’uomo, manifestando tutto il suo potere.

Quando i redattori dell’antologia inviano il saggio di Freud agli autori, tra cui Holness, chiedono loro di scegliere una paura inquietante e di farne l’epicentro del loro racconto.

Familiare e estraneo

Freud porta ad esempio déjà-vu, loop temporali, ripetizioni, doppi, doppelgänger ed altro ancora per esprimere una sensazione di familiarità combinata all’ignoto. Un misto informe e incisivo di paura e attrazione generato da questi fenomeni. Nel racconto di Holness, il cineasta parte da due paure, quelle delle bambole e del doppio. Ecco che Possum diventa una versione altra di sé, ma non troppo. Ha un volto di uomo e le sembianze di una bambola. Eppure non è possibile garantire che non prenda vita, che non sia essa stessa a governarlo. Secondo Freud, il perturbante resiste al processo di rimozione ed emerge ogni volta che nella nostra vita tornano a galla vecchie e inconsce convinzioni.

Pochi eventi salienti accadono nel lungometraggio di Matthew Holness. Al pubblico tocca mettere ordine in questa carrellata di simboli. Mettetevi comodi.

La ricerca delle location per il film nell’Anglia orientale porta Holness ad un ambientazione esterna post-apocalittica, uno scenario del tutto desolante. I due unici personaggi della storia, Philip e Maurice, affiliati di sangue, simili ma con funzioni narrative totalmente differenti, sono prima adagiati nel racconto e poi duellanti. Gran parte della pellicola è incentrata sugli insoliti movimenti del protagonista, occupato senza tregua dal suo rapporto con il pupazzo. I dialoghi con Maurice inframezzano questo andirivieni straziante e sono fatti innanzitutto di corpi corrotti, oscuri e oleati. Lo zio è brutale e vessa continuamente il nipote.
Il pathos si sposta dagli esterni all’interno della casa di Maurice, corredata di un aspetto fatiscente. Un barattolo di caramelle verde diventa un ricordo ingombrante nella vita di Philip.

L’oggetto film come il pupazzo Possum

Si fa fatica a comprendere i confini tra i piani temporali. I deliri e le allucinazioni li dilatano e li accavallano, con conseguente confusione nello spettatore. L’effetto è ricercato dal principio e contribuisce a generare nell’audience una reazione pari a quella che Philip prova per l’oggetto Possum: attrazione e repulsione, immedesimazione e rifiuto.

Possum e Sean Harris in una scena del film

Che Holness scelga proprio il ragno come metafora delle sue paure sembra essere un omaggio a Kafka e a Le metamorfosi. Forse non c’era spazio per approfondire questo peculiare simbolismo, anche se è palese il sentimento disagevole e oppressivo che risuona in Philip. Potrebbe trattarsi di una scelta di regia, finalizzata a rendere lo spettatore “libero” di figurarsi le proprie paure, senza insufflare un immaginario che in realtà è puramente individuale.

Possum resta un’opera per chi si arrischia a livello esperienziale, confermando che gli esordi sanno essere come rose nel deserto.

Sono Diletta e qui puoi trovare altri miei articoli

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