Su MUBI è possibile recuperare un documentario molto interessante intitolato David Lynch: The Art Life, diretto da un trio registico formato da Jon Nguyen, Neergaard Holm e Rick Barnes, e incentrato, come suggerisce ampiamente il titolo, sulla figura geniale e talvolta impenetrabile di uno dei migliori registi viventi: David Lynch.
Come nasce artisticamente David Lynch
Già dal manifesto di questo documentario-confessione girato a sei mani (probabilmente anche a causa della complessità del soggetto preso in esame), emergono inequivocabilmente il volto, l’espressione, il dettaglio dei particolari, tutti estremamente cinefili, dell’autore.
Il capello disordinatamente pettinato con un estro da scultura, un mozzicone fumante perennemente tra le dita, occhio a taglio rivolto verso il lavoro che lo sta occupando.
Quello che muove Lynch, artisticamente ma non solo, è la ricerca perenne di uno sguardo, di una espressione da catturare in qualità di artista impegnato ora soprattutto in una disciplina a metà strada tra la pittura e la scultura, che si fonda all’apparenza semplicemente sull’assemblaggio di cose, oggetti e materiali.
Questa pare l’attuale ossessione del cineasta, intento a cogliere, catturare, fissare per sempre, quel momento di ispirazione che lo appaga e lo rende realizzato.
Nel magazzino della sua abitazione geometricamente essenziale, dove il cemento pare inghiottito e soffocato dal verde lussureggiante ed incontrollato delle le verdi colline hollywoodiane, un David Lynch indaffarato a mescolare pitture, a lavorare oggetti a lungo manipolati attraverso guanti di gomma che ricoprono mani che egli usa anche come pennelli, cerca di catturare l’espressione dell’angoscia.
E dalle opere spesso inquietanti e deformate che scaturiscono dai suoi collage e accostamenti arditi, questo dettaglio emerge evidente, inequivocabile, qualunque siano le sue origini.
David Lynch: The Art Life – l’infanzia serena che lascia il posto alle ossessioni in grado di avvicinarlo all’arte
E dire che, raccontandosi dai primi anni della sua infanzia serena all’interno di una famiglia pacifica di genitori e figli uniti, tutto si può pensare del regista tranne che l’angoscia possa essere derivata da esperienze personali realmente vissute.
No, la famiglia non c’entra. Ma quando Lynch ricorda il suo primo incubo ad occhi aperti, l’apparizione della donna nuda che gli si staglia davanti (la sua prima esperienza con un nudo integrale), ecco che il suo stile complesso, le sue ossessioni labirintiche, i dettagli dei volti umani deformati o dalle fisionomie sinistramente animali, emergono e trovano giustificazione già a partire dalla sua prima folgorante esperienza cinematografica d’esordio. Ovvero l’angosciante, torbido, fuligginoso e soprattutto mostruoso Eraserhead.
Un esordio che anticipa egregiamente lo stile visionario con cui il regista e artista tenta da sempre, con estrema perizia e grande efficacia, di rappresentarci – senza per forza volerci spiegare – l’orrore e l’incubo che si annidano all’interno di una malvagità di ogni essere umano.
L’orrore è il sentimento che crea sdoppiamenti, visioni, incubi, minacce impossibili da decifrare nei dettagli, ma concrete nel malessere che provoca e nel disagio che si manifesta sui volti deformati di chi ne è succube e non riesce ad uscirne.
Ed è incredibile che tutto questo sussulto interiore, che sa di incubo senza fine, trovi rappresentazione e testimonianza compiuta (e concreta) attraverso l’opera di un uomo dall’aspetto compassato, dai modi calmi e riflessivi e dall’aplomb aristocratico che Lynch comunica nella sua disincantata e quasi disarmante capacità di raccontarsi senza remore, falsi pudori o ingannevoli reticenze, entro cui molto spesso sono soliti rifugiarsi gli artisti quando si tratta di parlare di se stessi.