Paul Thomas Anderson, regista californiano autore di film memorabili quali Magnolia, Il filo nascosto, Licorice Pizza, realizza Il petroliere, dedicandolo alla memoria di Robert Altman, suo maestro e grande cantore critico dell’America.
1898, da qualche parte nel grande ovest americano. Un uomo solo, sprofondato nel buio del pozzo di una miniera. Incessantemente un piccone si abbatte sulla dura roccia, lancia scintille a ogni colpo vibrato con forza. Le mani dell’uomo, frenetiche, afferrano i frammenti di pietra, li graffiano alla spasmodica ricerca di metallo prezioso. L’uomo esce dal pozzo, si accampa nel nulla della notte, scacciando paure ancestrali alla luce di un fuoco. Giorno dopo giorno vi rientra e ne riemerge, in una metaforica discesa e risalita dagli inferi. Sino a quando un piolo rotto della scala in legno si stacca, facendolo precipitare nel buio profondo. Pur dolorante, con una gabba spezzata, non si abbatte. A fatica raggiunge la luce portando con sé un frammento di roccia. È preziosa: contiene oro e argento.
Poi, una musica extradiegetica continua e stridente ci accompagna, con un salto di qualche anno. A osservare lo stesso uomo immergersi, insieme ad altri compagni di lavoro, in un altro pozzo. Questa volta alla ricerca di una sostanza altrettanto preziosa, il petrolio.
Quando uno di loro muore precipitando nel fondo del pozzo pieno del liquido nero, lascia un piccolo orfano chiamato semplicemente H.W. (Dillon Freasier da bambino e Russell Harvard da adulto). L’uomo lo accudirà crescendolo come un figlio, per poi ripudiarlo una volta diventato adulto. Gli rivelerà le sue origini, definendolo “un bastardo trovato in un cesto”.
Un lungo incipit in cui le parole sono superflue
Il petroliere, monumentale opera di Paul Thomas Anderson, si apre con un incipit da antologia. Quindici minuti di grande cinema che rendono superflua ogni parola. A parlare sono i suoni e le splendide immagini di Robert Elswit (che per questo film ha vinto l’Oscar per la miglior fotografia). Sufficienti a fornirci la chiave di lettura di un film che rappresenta una delle vette più alte del cinema del regista californiano.
L’irresistibile ascesa di Daniel Plainview (Daniel Day-Lewis), che dopo un decennio diventa uno dei più grandi proprietari di pozzi petroliferi americani, ci viene narrata da Anderson. Il regista è autore anche della sceneggiatura, adattando liberamente per il grande schermo “Petrolio”, romanzo scritto nel 1927 da Upton Sinclair, scrittore dalle convinte idee socialiste.
Un’ossessiva rincorsa al denaro e al potere
There Will Be Blood, titolo originale de Il petroliere, è un film fatto di liquidi che scorrono sulla terra e che dalla terra sgorgano in alto verso il cielo, alla disperata ricerca di un sogno che diventa ossessiva rincorsa al denaro e al potere. A dominare sono il rosso del sangue e il nero del petrolio sottratto alla terra, che viene così prosciugata della sua ricchezza mentre Daniel, contemporaneamente, prosciuga se stesso sino a sfiorare la follia in un crescendo che lo porterà a pronunciare le parole “I’m finished” cioè “ho finito” ma, anche, “sono finito”.
A fare da controcanto a Daniel Plainview e alla sua ossessione è Eli Sunday (Paul Dano), fratello di Paul (lo stesso Dano) colui che, dietro compenso, aveva rivelato a Daniel la presenza nella terra di proprietà della sua famiglia, di vaste pozze di liquido nero.
Eli è un predicatore fanatico, al pari di Daniel posseduto dalla sete di potere. È subdolo, manipolatore delle donne e degli uomini che credono in lui e si lasciano plagiare dal suo eloquio farneticante.
In un arco temporale di una trentina d’anni (il film termina nel 1927, poco prima della grande crisi finanziaria che travolse gli Stati Uniti), Daniel ed Eli diventano entrambi simbolo di un’intera nazione, un paese avido che, crescendo, distrugge, annienta, sottomette tutto ciò che trova sulla propria strada.
L’umanità perduta e il senso di solitudine
In particolare Daniel, col passare degli anni, arriva a perdere qualsiasi tratto di umanità, eliminando sistematicamente dalla sua strada qualsiasi ostacolo possa interferire con il suo progetto, rinunciando a qualsiasi relazione umana: con il figlio, con un fratellastro improvvisamente ritrovato e che, poi, non si rivelerà tale, con lo stesso Eli, sebbene si tratti di un rapporto malato, fra due personalità egocentriche e dominanti.
L’ascesa di Daniel Plainview non potrà che finire come era iniziata, in solitudine. Ma mentre all’inizio del film la sua condizione era quella di un uomo alla ricerca di una fonte di sopravvivenza, al termine della sua storia ci troviamo di fronte a un vincitore che, allo stesso tempo, ha perso. Un uomo che “ha finito” di fare ciò che doveva fare e che, ugualmente, “è finito”. E resterà solo uno schermo nero a chiudersi, pietosamente, sulla figura di quest’uomo.
Il petroliere, vincitore dell’Orso d’argento come miglior film a Berlino, conferma la grande classe di un regista quale Paul Thomas Anderson e, soprattutto, esalta l’interpretazione di Daniel Day-Lewis, che, per questo, ha vinto l’Oscar come miglior attore protagonista.
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