Guardando indietro alla carriera del divo americano non si può non notare e fare una precisa analisi riguardo il suo ruolo d’attore, e le sue scelte. Perché Kevin Spacey, attore teatrale di formazione shakespeareiana, si trova a suo agio con l’ambiguità della sua caratterizzazione, la quale lo fa assurgere alle volte all’archetipo del villain, altre dell’antieroe. E nei pochi casi in cui interpreta una vittima, si veda The Life of David Gale, l’interpretazione di Spacey mira nel volto a protendere per la sfiducia o nel processo di empatizzazione da parte del pubblico. E quindi non ha sorpreso che, dopo vari riconoscimenti come villain di turno, all’alba della nascente serialità dello streaming, Kevin Spacey si prese la scena risultando da subito nei panni in un ruolo nato per lui. Aggiungendosi ed implementando le sue tante maschere: il villain tenebroso, doppiogiochista, l’eroe apparente, l’amico truffaldino, il politico con le mani sporche di sangue.
1 – I soliti sospetti
Nel noir di fine millennio di Bryan Singer, Kevin Spacey interpreta una perfetta mutazione tra i due archetipi dell’eroe e dell’anti fino alla fusione del suo opposto. Roger Kint, il finto zoppo, che mischia le carte e la sua natura nel pericoloso Keyser Söze. La sua bravura risiede nell’ambiguità di celare le due maschere dello storpio e del pericoloso boss ungherese. Un gioco di scacchi che il personaggio di Spacey mantiene fino alla fine. In un enigma della manipolazione che confonde il vero con la finzione, usando Gabriel Byrne come capro espiatorio. L’immedesimazione di Spacey qui è totale, soprattutto dal punto di vista recitativo. Esce e rientra da i suoi due personaggi, riuscendo ad ingannare tutti, tirando le fila di uno schema che prevede la sua ingegnosa fuga in grande stile. Vincitore del premio Oscar come miglior attore non protagonista.
2 – Seven
Non si può di certo non citare il cult di David Fincher e uno dei villain più perversi e iconici di sempre. Il killer John Doe vive della lucia follia delle sue azioni e dei suoi ricatti. Al netto del riuscitissimo thriller moralista e quasi spettrale del film di Fincher, la bravura di Kevin Spacey è ancora una volta psicologica. Nel suo sadismo e nelle sue mani grondanti di sangue, il serial killer traccia una scia di rappresentazione carnale dei 7 peccati capitali, spingendo al limite l’integrità umana. Un gioco psicologico che Spacey porta fino al limite col personaggio di Brad Pitt. I peccati di gelosia e di ira si incontrano scontrandosi in un crudo e stupendo duello finale.
3 – American Beauty
Se ogni attore ha il suo Padrino, per Kevin Spacey lo è indubbiamente l’opera di Sam Mendes. Uno spaccato della media famiglia americana, normale e insoddisfatta, in cui Spacey da sfoggio e sfogo all’insoddisfazione rabbiosa di Lester Burnham. Il quale stanco della frustrazione matrimoniale con la moglie Annette Bening, rifugge dal suo mondo asettico famigliare, sognando una nuova giovinezza. E lo fa grazie al personaggio di Angela, la quasi ragazza ribelle della figlia, con cui ha un rapporto apparentemente ambiguo, fatto di flirt e avances esplicite che non arrivano mai al punto, tranne nel finale. Ma che serve a darci un’interpretazione diversa del solito Spacey. Arrivato a mezza età lascia un lavoro sicuro per un posto n un piccolo fast food, realizzando ciò che il suo carattere del vecchio Lester aveva sempre impedito. Accedere ai propri sogni e sfizi, come comprare un’auto di lusso. Kevin Spacey si toglie i panni della classica figura antieroica di turno, interpretando un personaggio positivo nella sua voglia di superare il proprio stato di alienazione. Allontanando la negazione per una ritrovata felicità, seppur momentanea e tragicamente effimera.
4 – House of Cards
Nel 2013 era una sorta di eresia che star del cinema pluripremiate partecipassero a show televisivi. Kevin Spacey fu il primo a scommettere sul nascente Netflix e lo fece con una serie che entrava dentro gli intrighi del potere, facendolo con un taglio differente e innovativo. Il suo Frank Underwood di House of Cards è prima di tutto un personaggio soggettivo che traina la serie attraverso un profondo e controverso character driven. Spacey lo fa soprattutto con un costante rapporto con lo spettatore, lo interpella continuamente, aggiornandolo delle sue malefatte politiche e criminali. La White House sembra il New Jersey e Frank un Tony Soprano della politica americana. Corrompe, ricatta, e senza rimorso non ci pensa due volte a ricorrere ad espedienti illegali per proteggere ciò che ha di più caro. Il potere. Le disgressioni interpellanti dello Spacey/Underwood rompono la quarta parete in un modo insolito. Lo spettatore si sente in colpa e nello stesso tempo partecipe del modus operandi di Frank. In un mondo dove le mezze misure non esistono e la via verso casa è stata persa da tempo.
Kevin Spacey vive per l’immedesimazione della natura umana e in più di cinquanta film lo ha dimostrato ampiamente. Rivendicando il ruolo della maschera in cui l’attore è coinvolto. Il mistero che genera il tentativo di catarsi racchiuso in un trattenimento delle emozioni verso l’imprevedibilità della performance. E come ebbe a dire Sam Mandes, Spacey da un momento all’altro può farti venire la pelle d’oca.