Tenace e agguerrita. Ha studiato nel Regno Unito, risiede in Francia, ma è chiaramente anche un’italiana doc, non solo appassionata del suo Paese, ma motivata a fare qualcosa perché non vada in rovina. Ludovica Fales è una persona istrionica, di una potenza travolgente. È tra coloro che hanno reso possibile l’evento La scrittura è donna organizzato dalla Fondazione Lionello Balestrieri, l’Associazione Casa Bianchini Balestrieri e il Comune di Cetona in occasione del lancio del Premio Ruggero Maccari.
Abbiamo incontrato quest’autrice poliedrica pochi mesi dopo la vittoria del Premio del Pubblico al Bellaria Film Festival. Un premio conquistato con il suo documentario, Lala, la storia di una ragazza rom, Zaga (raccontata con strategie narrative diverse), nella sua battaglia che è in realtà una lotta per la sua identità. Un Premio, appena riconfermato dalla Menzione Speciale conquistata all’Ortigia Film Festival.
Con Ludovica Fales abbiamo parlato non solo del suo film, progetto sociale e opera civile allo stesso tempo. Ma anche del ruolo della donna in un universo professionale, quello cinematografico, che si sposa perfettamente con i valori veicolati dal suo documentario.
L’invisibilità, e la corsa per il riconoscimento, sono solo alcune caratteristiche che accomunano i personaggi del suo film con le donne di cui si è discusso in seno all’evento di Cetona Cinema. Lala è quindi un film che ha magicamente anche un potere terapeutico, nella forza di vedere raccontata una storia taciuta, una condizione fino ad oggi lasciata nell’oblio.
Il film è strettamente legato all’intervento della regista e a una delle protagoniste, Ivana Nikolic, con la sua ironia e il suo sarcasmo tagliente. Insieme, queste due donne strepitose raccontano del film, del progetto e della realtà a cui si riferisce, ovvero quella della comunità Rom in Italia.
Il racconto del processo di lavorazione è una emanazione essenziale per conferire al documentario il valore che si merita. E poter approfondire il significato e la missione di un lavoro complesso durato anni.
Ludovica Fales e la storia del suo film Lala
Ludovica, ci racconti come è nato Lala?
Ho incontrato Zaga nel 2012 a Roma, quando aveva diciassette anni. In quei giorni pensava di ottenere la cittadinanza italiana: “Fra poco compio diciotto anni, sto discutendo con un avvocato, mi sposo col ragazzo che amo e poi mi cerco un lavoro”, mi diceva.
La realtà dei fatti ha mostrato che lei era nell’impossibilità totale di ottenere i documenti, perché di fatto non era nemmeno apolide. La sua una condizione legislativa era estremamente eccezionale, per la quale non avrebbe potuto ottenere nessuna cittadinanza. I suoi genitori erano arrivati in Italia durante la guerra dei Balcani, senza documento che ne provasse la cittadinanza di origine, come molte persone rom fuggite durante il conflitto. Eppure, non erano mai stati riconosciuti come rifugiati dallo Stato Italiano e, non avendo ricevuto alcuno status, Zaga si era ritrovata a ereditare quella invisibilità.
Per ottenere uno status avrebbe dovuto andare in Serbia, senza documenti, per poi richiederli in quel paese, dove i suoi genitori erano nati, rientrare e far domanda prima di un permesso di soggiorno e successivamente della cittadinanza in Italia. Lo Stato italiano investe così tanto nell’educazione di migliaia di persone…che poi consegna alla maggiore età senza alcuna identità, esposti all’invisibilità e all’esclusione sociale.
Capisci che questo è uno “stato di eccezione” reso regola. Una cosa che contiene in sé – in potenza – il pericolo della scelta di un’umanità di serie A e una di serie B.
Per me questo è inaccettabile. Parlare di questa storia universale e della questione etica, politica e morale era imprescindibile.
I documenti sono l’inizio della possibilità di vivere una vita integrata e l’invisibilità il luogo in cui prolifera l’ingiustizia sociale, a cui nessun essere umano deve essere esposto.
A quel punto, nel pieno delle riprese, Zaga ha fatto perdere le tracce di sé. Aveva iniziato un lungo viaggio durato anni, per ottenere effettivamente i documenti nel paese d’origine dei suoi genitori. Ha vissuto quell’odissea in giro per l’Europa, sola, come un fantasma, tentando di non attirare su di sé l’attenzione. Voleva raggiungere quell’ufficio fatidico che potesse finalmente darle un’identità e renderla visibile.
Io, nel frattempo, senza sapere cosa le stesse succedendo, e preoccupata per la sua sorte, volevo ancora raccontare la sua storia, e quindi ho cercato una ragazza rom con cui riviverla. Doveva essere un film di finzione, ma è diventato molto di più – un universo di incontri, di storie, memorie, legami e un luogo di incontro fortissimo e straordinario.
Otto anni dopo, Zaga è riapparsa, con tutto quel carico di storie che nel frattempo lei aveva vissuto. Dal momento che il suo viaggio si era svolto lontano dalla possibilità di una testimonianza, lo spazio che avevamo creato collettivamente poteva finalmente essere un luogo dove la sua storia avrebbe potuto essere pienamente ascoltata.
A quel punto il film è tornato ad essere un documentario. Abbiamo voluto attraversare il processo creativo di riflessione sul trauma intergenerazionale che l’invisibilità genera, attraverso la creazione di un film collettivo che, per mezzo della storia di Lala, ospitasse le storie di ciascun partecipante.
Quindi il film si svolge su tre livelli, documentario finzione e meta documentario, tutti capaci di riflettere in modo diverso sulla complessità di questa storia. I ragazzi e le ragazze che erano nel film sono quindi diventati tutti e tutte Lala – e tutti e tutte Zaga.
Racconti di frontiera
Non è la prima volta che racconti di vite incastrate, in questo caso di Italiani che non vengono considerati tali. Quando nasce il tuo interesse per le storie di fuga e di frontiera?
La mia storia familiare, nella quale l’esilio ha avuto un ruolo, e così l’invisibilità dovuta alla perdita dei documenti, ha avuto un impatto fondamentale nella mia formazione. Mia nonna Angela Bianchini, era una scrittrice italiana di origine ebraica, che da giovane perse la cittadinanza a causa delle leggi razziali. Ha fatto della trasmissione della memoria una parte molto importante del suo lavoro.
Lei a sua volta aveva perso prematuramente il padre durante una missione di pace in Palestina nel 1921. Un uomo che si era messo in gioco per la convivenza pacifica tra Ebrei e Arabi e che, durante quella missione, aveva perso la vita in circostanze misteriose. La sua storia, e la sua battaglia per la pace in Palestina, è stata il soggetto del mediometraggio Lettere dalla Palestina, con il quale mi diplomai alla National Film and Television School nel 2011.
Mi confronto con il confine, la frontiera – dentro e fuori di me – dall’inizio del mio percorso di regista. Il confine è un luogo dove si concentrano tutti i dispositivi di potere – e allo stesso tempo è potenzialmente il luogo della ibridazione, del metissage, della molteplicità. Indago il confine perché lì sto cercando qualcosa di molto profondo, che riguarda ogni essere umano. Ovvero, la possibilità di generare noi stessi e noi stesse, di essere molteplici, creativi, liberi e non ingabbiati negli stereotipi di cui il potere ha bisogno per controllarci.
Il trauma e la storia artistica di Ludovica Fales
Nel tuo film, Lala,c’è una sequenza molto toccante in cui i ragazzi condividono alcune esperienze di vita, tanto che ciascuna di quelle potrebbe essere al centro di un ulteriore film. È curioso pensare come questo film possa essere un percorso curativo proprio per quegli stessi traumi che sono al centro della narrazione. Raccontaci del lavoro che hai fatto sul trauma e di come sei riuscita a rielaborarne uno così specifico come quello della comunità .Rom.
Il trauma arriva ad attraversare tre generazioni. Il discorso intergenerazionale sul trauma è fondamentale nel mondo contemporaneo. Era importante in questo film che costruissimo uno spazio sicuro per poter raccontare l’identità, senza rivendicazioni e tabù, nell’idea della molteplicità e del pluralismo. Quindi abbiamo creato un progetto collettivo che ponesse il pubblico in una posizione attiva.
“Hai il permesso di fare questo film se ne mantieni la complessità”, mi era stato detto. Allora mi sono posta in posizione d’ascolto.
Tenere il cinema in un territorio di complessità è una cosa difficile. Il pubblico non è sufficientemente esposto alla complessità della realtà. Come si fa oggi a fare il cinema della complessità senza risultare verbosi? Non so se ci siamo riusciti. Ciò che volevo era sicuramente che chiunque guardasse questo film non desse mai per scontato ciò che vedeva. Volevo che le persone si ponessero costantemente delle domande durante la visione, che si chiedessero quale fosse la natura delle immagini che scorrevano sullo schermo e come fossimo arrivati a fare quelle scelte.
Solo mantenendo vivo il pensiero critico possiamo combattere i luoghi comuni, i pregiudizi e consentire alle persone di districarsi autonomamente nella massa informe di informazioni e immagini che arrivano loro.
Noi documentaristi abbiamo il dovere di combattere le generalizzazioni, le fake news, le rappresentazioni tendenziose e ricostruire un contesto dove fatti ed emozioni possano trovare una collocazione reale. La fiducia con lo spettatore si costruisce sul rispetto della loro autonomia critica e sul rispetto della loro intelligenza.
Il film ti ha insegnato a lavorare con una strategia diversa, seguendo il flow come hai voluto definirlo. Tra stravolgimenti di sceneggiatura e produttivi, il risultato è certo un prodotto narrativo che però è imprescindibile dalle avventure che lo hanno portato ad esistere. Vuoi raccontarci perché?
Il nostro film è stato scritto dagli eventi, che sono stati anche delle vicissitudini – e sfighe – inenarrabili. La scomparsa di Zaga ovviamente, di cui abbiamo già parlato. E alcuni fatti della vita che ci hanno travolti.
Poi addirittura, prima delle ultime riprese, abbiamo avuto un incidente imprevedibile per cui siamo stati costretti a cambiare tutta l’attrezzatura in una notte. Quindi cosa fai? A quel punto ho passato tutta la notte in bianco a pensare e ho cambiato il finale, o meglio ho cambiato il modo in cui finale è stato girato e l’elemento documentario concepito.
Il testo è molteplice e mutevole perché lo è la vita stessa e lo sono i sistemi produttivi. È stata una grande lezione di umiltà. Abbiamo sempre tenuto vivo il cuore del progetto, ma ci siamo adattati.
Con i ragazzi, tutti attori non professionisti, abbiamo lavorato sull’improvvisazione e sull’interpretazione. Abbiamo attraversato degli archetipi e ognuno doveva reagire ad alcune situazioni. Siamo partiti dal corpo, non dalla politica e non dal tema, e abbiamo raccontato così le esperienze personali. Esperienze che sono emerse dal lavoro sul corpo, dalla molteplicità e apertura delle improvvisazioni. È stato complesso lavorare con attori non professionisti, ma l’obiettivo era proprio che ciascuno fosse nel proprio ruolo e incorporasse questa storia in cui custodiva dei frammenti della propria.
Peraltro, a causa di questa “alterità” è stato difficile trovare i finanziamenti per questo film. I bandi tendono ad incasellare un prodotto in un sistema o nell’altro e quindi se qualcuno vuol fare un prodotto più fluido, è un’impresa.
Il film ha esordito da pochi mesi ma ha già conquistato i cuori del pubblico. Raccontaci delle reazioni del pubblico e del lavoro che stai facendo con Ivana Nikolic, una compagna di avventure non da poco.
Ci sono stati momenti indimenticabili che ci hanno fatto sentire la partecipazione delle persone e il potere di questo racconto collettivo. Molte persone giovani – e meno giovani – hanno avuto l’impressione di sentire questa storia per la prima volta e hanno provato indignazione nel testimoniare questa esclusione. Giovani ragazzi e ragazze rom hanno avuto il coraggio di dichiarare la loro identità, laddove prima temevano il giudizio e la discriminazione. Persone di tante provenienze si sono sentite capite e ascoltate.
In questo l’impegno intersezionale e internazionale di Ivana, che lavora con i podcast, il teatro civile, la danza, è fondamentale. Così come il lavoro sociale e politico di Fiorello Miguel Lebbiati e di tanti altri ragazzi e ragazze che hanno il coraggio di parlare di diritti in modo complesso, inclusivo, ampio. O il lavoro degli educatori, come Antonio Ardolino e Francesca Carducci. Tutte queste persone vogliono costruire una società aperta, capace di rispondere alla sfida della identità multipla delle persone e capace di sostenere le diversità in modo davvero forte e costruttivo.
Il Premio del Pubblico a Bellaria ci ha profondamente commosso e ci ha dato un segnale di dialogo e reale comprensione in questo senso. Speriamo davvero di poter continuare a parlare a sempre più persone, in contesti sempre diversi.
Identità, riconoscimento, giustizia sono le parole chiave di questo documentario. Ludovica Fales ha fatto sentire la sua voce, ma soprattutto, la voce dei Rom. Una popolazione che vive ancora nella diaspora, indotta e taciuta.