Francois Truffaut dichiarò: “Credo, che i cinefili non amino i documentari.” Gli fece eco Jean Luc Godard che, senza mezzi termini, affermò: “Il documentario parla di qualcun altro, un film parla di me.” Quali le ragioni di queste dichiarazioni così tranchant? Volendo davvero estremizzare (e spero non me ne vogliano i registi dei doc), penso alla geniale definizione di Umberto Eco, nel capitolo “Come riconoscere un film porno”, pubblicato ne “Il secondo diario minimo”:
“Ebbene c’è un criterio per definire se un film è pornografico o no ed è basato sul calcolo dei tempi morti. Un film pornografico, per giustificare il biglietto di ingresso o l’acquisto di una videocassetta, ci dice che alcune persone si accoppiano sessualmente (…) Se Gilberto deve violentare Gilberta, deve andare da Piazza Cordusio a corso Buenos Aires, il film vi mostra Gilberto in macchina, semaforo per semaforo che compie questo tragitto. (…) Le ragioni sono ovvie. Un film dove Gilberto violentasse sempre Gilberta non sarebbe insostenibile. (…) Pertanto il film pornografico deve rappresentare la normalità. Questo irrita lo spettatore perché essi vorrebbero che ci fossero sempre scene innominabili. (…) Entrate dunque in una sala cinematografica. Se per andare da A a B i protagonisti ci mettono più di quanto desiderereste, questo significa che il film è pornografico.”
Parafrasando la definizione di Eco, direi che un’opera può definirsi documentaristica per la scelta dei registi di filmare quei particolari (la caffettiera sul fuoco, i quadri appesi alle pareti, la mdp fissa per minuti sul volto di un personaggio della vicenda..) e/o quei gesti di vita quotidiana, che, definiti “tempi morti” nel cinema di finzione, generalmente, verrebbero tagliati.
Sappiamo benissimo, altresì, che, al di là delle cifre stilistiche, dietro la scelta di un documentarista c’è il bisogno di andare fisicamente dove succedono le cose, di costruire una relazione con le persone che vivono una determinata condizione. Un’esigenza, insomma, di entrare dentro le vite delle persone, nella loro intimità, di disvelare di ciò che è nascosto sotto la superficie di maschere e inganni. Ed è proprio questo che propone Chiara Marotta con il suo Il momento di passaggio.
La regista, infatti, intervista la nonna, la madre e la sorella che, anni prima, avevano deciso di vivere insieme in una comunità religiosa. Un ritorno a casa quella di Marotta, che nasce dal bisogno di comprendere la scelta di fede di chi, di fatto, ha deciso di separarsi da lei e, in qualche modo, di abbandonarla. La regista (con alle spalle il corto Quelle brutte cose, miglior montaggio alla 33. Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia, e Veronica non sa fumare, miglior cortometraggio alla 34° Settimana Internazionale della Critica di Venezia) alterna le interviste con delle foto di oggetti e giocattoli su uno sfondo azzurro, e tra le scene di vita quotidiana mostra i religiosissimi familiari mentre recitano il rosario. Una narrazione senza strappi la sua e colpisce l’ascolto partecipe della regista che, nel corso della narrazione, (stranamente?) non critica le scelte dei familiari, non le attacca, ma, rispettandole, accoglie le loro pacate e inattaccabili riflessioni.