Il personaggio di Laurence Clory (interpretato da Guslagie Malanda) è di quelli destinati a farsi carico di istanze che vanno oltre le questioni legate alla propria vicenda cinematografica.
Ammettendo fin dal principio la colpevolezza di un omicidio di cui neanche lei sa darsi spiegazione, Laurence, e con lei Saint Omer, prendono le distanze dall’omologazione corrente portando sullo schermo un modello femminile che, per una volta, non rinuncia alla complessità, ma che anzi la rilancia affermando il diritto delle sue contraddizioni.
Un punto di vista, quello del film, che Guslagie Malanda trasferisce nelle caratteristiche di un’interpretazione altrettanto complessa per il fatto di entrare nel mistero del suo personaggio senza trovarne le risposte, ma anzi mettendo lo spettatore nella posizione di interrogarsi sulla realtà in maniera non preconfezionata.
Il film è disponibile su Prime Video, tramite noleggio o acquisto.
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Saint Omer secondo Guslagie Malanda
Un aspetto della tua interpretazione era legato al carattere di Laurence, allo stesso tempo forte e fragile, razionale e istintivo. In più in Saint Omer il processo per infanticidio diventa anche l’occasione per un’indagine che non riguarda solo la femminilità di Laurence, ma quella di tutte le donne.
Dovevi dunque far convivere il particolare con l’universale cercando di dare forma “all’altra donna”, quella che neanche il tuo personaggio conosce.
Saint Omer testimonia questa scoperta progressiva costringendoti a un’immobilita che in qualche modo trasforma il tuo corpo in una sorta di sarcofago che fa da nascondiglio alla tua parte più nascosta. Le diverse posizioni della mdp – dal campo lungo a inquadrature sempre più strette – testimoniano le fasi di questa presa di coscienza. Che tipo di rapporto hai avuto con la mdp?
La tua analisi è molto corretta per cui non aggiungerei altro.
Per quanto riguarda la mdp per me non esisteva perché quello in cui mi trovavo era il mio stesso processo.
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Se da un lato la complessità del tuo ruolo in Saint Omer è di quelle che un’attrice vorrebbe sempre trovare nel proprio lavoro, dall’altro una delle difficoltà consisteva nell’aderire a un personaggio che si macchia di un gesto indicibile.
Avevo paura di interpretare il ruolo perché era necessario portare nel mio corpo e nella mia mente il ricordo della gravidanza, del parto e della vita seppur breve con una figlia che finisco per uccidere. Durante il casting Alice mi ha chiesto di interpretare il personaggio di Marilou, ovvero della donna che viene intervistata nel documentario Chronicle of a Summer di Jean Rouch e Edgar Morin. Si tratta di un monologo in cui questa donna racconta come è entrata in depressione. Nell’istante in cui l’ho fatto è come se avessi sentito di aver aperto la porta, accettando i vuoti in cui mi avrebbe portato il ruolo di Laurence Coly. In quel momento sono diventata lei e non un assassina. Sono diventata quella donna in maniera completa. Stessa sensibilità, stessi gesti.
La preparazione
Mi interessava sapere come ti sei preparata prima di fare il provino e quali sono state le indicazioni della regista una volta arrivata sul set?
La preparazione per il casting è stata lunga e intensa. Ogni volta dovevo tornare a ripetere monologhi, ascoltare testimonianze, imparare a essere presente in maniera silenziosa. Le audizioni richiedevano di resistere a uno sforzo molto intenso. In quel periodo ho avuto bisogno del supporto di una delle mie migliori amiche che è anche un’attrice. È stata lei la prima persona con cui ho letto l’intera sceneggiatura.
Poi mi è servito vedere le interpretazioni di Brigitte Bardot in La verità di Henri-Georges Clouzot e di Florence Carrez-Delay ne Il processo a Giovanna d’Arco di Robert Bresson. La loro visione mi ha regalato un meraviglioso manuale di istruzioni. Una è come un vulcano in procinto di eruttare, l’altra è ieratica, spinta dalla convinzione che Dio è con lei. La mia interpretazione di Laurence Coly è una via di mezzo tra i loro due personaggi.
Il ruolo di Laurence è complesso perché ci sono diversi aspetti chiamati a convivere all’interno della sua condizione. Il primo riguarda la questione sociale, ovvero il doppio svantaggio che le deriva dall’essere donna in un mondo maschile, il secondo che deve farlo da emigrata in un paese straniero. Saint Omer ci racconta una donna costretta a rinunciare ai propri sogni. Quali aspetti della vita reale hai trovato in questo ruolo?
La tua domanda è troppo personale. Ho un profondo rispetto per le persone che hanno dovuto sopravvivere prima di iniziare a vivere. Alcuni ce l’hanno fatta, altri no. Faccio parte di una famiglia di persone che sono riuscite a superare queste difficoltà, ce l’hanno fatta e questa è una possibilità davvero preziosa.
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La tecnica di Saint Omer e di Guslagie Malanda
Quello di Laurence Coly è un ruolo ‘parlato’ in cui avevi il compito di riportare in vita un fantasma. Come hai lavorato con la tua voce?
Ho imparato il testo da sola, in modo religioso. È stato come studiare una lunga preghiera interiore. La mia postura dentro il film è al confine tra teatro e cinema. La mia voce esiste all’interno del tribunale, quindi è allo stesso tempo performance e il mistero di chi nasconde un segreto. Per arrivare fin lì mi sono chiesta quale fosse il modo migliore per raccontare ad alta voce qualcosa di così intimo ed enigmatico. Quella è stata la misura con cui mi sono confrontata. Per riuscirci ho lavorato sulla modestia delle parole che dovevo usare.
Tranne in una delle inquadrature, in cui ti vediamo insieme al tuo avvocato, non sei mai in scena con altre figure umane. Il tuo è praticamente un “assolo”. Questo ha reso la tua interpretazione ancora più complicata. Come hai fatto? Come ti sei aiutata? Quali erano i tuoi punti di riferimento sul set?
Mi sono allenata come un’atleta. Poco prima delle riprese ho lavorato per un mese e più volte alla settimana solo sulla mia respirazione con un maestro di Tai chi. Una volta sul set ho usato tutto l’insegnamento che mi aveva instillato. Imparare a controllare il proprio respiro e riuscire a usarlo nella maniera voluta è un’arte molto difficile, ma essenziale. Durante le riprese, il mio corpo e la mia voce sono rivolti principalmente verso il giudice, interpretato da Valérie Dréville, una grandissima attrice di teatro che ha interpretato lei stessa Medea. Credo che implicitamente, averla di fronte e sentire la sua presenza mi abbia guidato.
La scena che si conclude con il sorriso di Laurence all’altra protagonista del film è uno dei passaggi più importanti. In quel momento metti in scena la vertigine che si ha quando si guardano gli abissi dell’anima. La resa è quasi da film horror. Prima di girarla avevi in mente un film di riferimento? A me ha fatto venire in mente il sorriso di Anthony Perkins nella sequenza conclusiva di Psycho. Avevi in testa un film di riferimento?
Sì, anche per me quella è stata una scena da film dell’orrore, una sequenza fantasiosa che gioca con la storia del cinema. Prima di farla non ho pensato a nessun film in particolare. Certo, è stata molto difficile da interpretare. È una scena che mi spaventa e mi rende inquieta per cui preferisco siano gli spettatori a valutarne il significato e la resa emotiva.
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La conclusione
Alla fine del processo, Laurence non viene scagionata, ma ottiene la comprensione del mondo esterno che prima non aveva. Il film non spiega i motivi del gesto, riaffermando il mistero della natura umana e nella fattispecie di quella femminile. In relazione a questo finale, come ti poni? Che spiegazione gli dai?
Per poter rispondere a questa domanda, avrei dovuto interpretare un altro personaggio. Per quanto mi riguarda io ero Laurence, quindi non posso rispondere. Il suo mistero è diventato il mio mistero per cui ciò che penso come individuo rimarrà tra questo personaggio e me.
Quello di Laurence è un percorso di consapevolezze incerte, ma necessarie. Come donna, cosa ha aggiunto alle tue?
Il ruolo di Laurence mi ha fatto capire che non potevo più nascondermi, sentendomi per la prima volta un’attrice a pieno titolo. Questa consapevolezza per me è stato uno shock. Prima di Saint Omer per sette anni ho continuato a rifiutare progetti arrivando a non andare più ai casting. Oggi, grazie al film di Alice, mi sento emancipata da quel passato.
Il cinema di Guslagie Malanda
Che regista è Alice Diop è che tipo di lavoro avete fatto?
Non saprei dirti che tipo di regista è. Per quanto mi riguarda ho l’impressione di averla scoperta vedendo il film. Sul set sono arrivata con un po’ di paura ma sapevo di essere pronta. Quando è iniziata la lavorazione i nostri scambi sono stati sporadici. Ci siamo intese con uno sguardo oppure con brevi confronti sul testo. Sono stati scambi meticolosi che però non hanno mai esaurito la portata del personaggio. Siamo arrivate sul set come quando si inizia una lunga traversata o una salita molto ripida, pronte a farci forza l’una con l’altra. Siamo state una coppia incrollabile. Il nostro rapporto di lavoro si è basato esclusivamente sulla fiducia. Non appena mi ha dato il ruolo, sapeva che nessuno tranne me poteva farlo e io sapevo che nessuno tranne lei poteva dirigere questo film. Il mistero del mio personaggio doveva essere impenetrabile per gli spettatori, ma anche per lei. Ecco perché non abbiamo analizzato nulla insieme e non ci siamo date spiegazioni. Ci siamo preparate per conto nostro, con serietà e rigore, poi ci siamo semplicemente tuffate.
Che tipo di cinema ti piace e quali sono i tuoi attori/le tue attrici di riferimento?
È difficile rispondere a questa domanda perché penso di non avere un genere preferito e sono tanti gli aspetti di un film che arrivano a influenzarmi. Per quanto riguarda gli attori o le attrici a volte sono certe scene; le emozioni di una sequenza o il modo di muoversi all’interno di esse mi colpiscono molto, ma senza alcun fanatismo.
Considerando solo i film più recenti ho trovato magnifica l’interpretazione di Cate Blanchett in Tàr. È molto raro dare a un’attrice l’opportunità di interpretare un ruolo pericoloso. Parlo del vero pericolo, quello per cui devi accettare che la tua immagine possa uscirne danneggiata. Dunque è stato bello vedere un’attrice come lei padroneggiare la sua arte fino a questo punto. È qualcosa che ti toglie il fiato.
Per l’opportunità e la traduzione ringrazio un’amica di Taxidrivers.it, Paola Lavini