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Taxidrivers Magazine

TriBeCa Film Festival 2012

Illuminazioni dal cinema indipendente americano. Dalla nostra corrispondente da New York Stefania Paolini

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L’America è l’ora, tutt’al più il domani. Tutto si crea, si usa ed abusa e poi termina, rimpiazzato da qualcosa di più intrigante. Non dispongo di rilevazioni statistiche, ma sono quasi certa che “permanente” sia la parola più detestata dagli Americani. Lo posso ben dire io che ho collezionato due falliti tentativi di nozze in meno di undici mesi.  Ma L’Uomo di Cromagnon e il ragazzo con gli occhi di Paul Newman, quantomeno, hanno insegnato a questa ragazza una regola aurea: se parte troppo bene, finirà malissimo. Mantenere uno standard è la vera chimera dell’American living, ed è triste constatare quanto il rassicurante adagio del “chi ben comincia” non valga davvero una pipa di tabacco, soprattutto poi se applicato al mondo così crudelmente transeunte del Cinema.

C’era una volta il TriBeCa Film Festival.

C’era una volta un’iniziativa votata a riqualificare la zona sud di Manhattan all’indomani dell’orrore dell’11 Settembre, a ricollocare New York al centro della mappa della produzione cinematografica mondiale. C’erano una volta Robert De Niro e Martin Scorsese e Julian Schnabel e altri grandi artisti che desideravano ardentemente dare lustro al loro quartiere di provenienza. C’erano una volta film d’autore, l’apertura all’avanguardia estera, poco glamour e molta qualità.

Ci sono oggi film mediocri, l’incapacità’ congenita del Festival di darsi un volto preciso, goffi tentativi di coinvolgere le nuove leve con fondi e percorsi di formazione. Ci sono oggi celebrazioni modeste quando non raffazzonate. Ci sono parate di TV star transfughe. C’è Susan Sarandon madrina un po’ alticcia.

L’edizione di quest’anno, la nona, del TriBeCa Film Festival passerà alla storia come una delle più scialbe. Chiuso a sandwich tra SXSW eCannes, la kermesse perde progressivamente il suo fulgore e soprattutto la sua ragion d’essere. Che senso ha il TriBeCa quando il New York Film Festival quest’anno compira’ cinquant’anni? Quali i motivi per mantenere in vita un baraccone sclerotico che moltiplica sezioni e sotto categorie senza una precisa strategia, inglobando market networking, training, incontri con i professionisti, la Apple (nella Grande Mela), sport,  multimedia, eventi per famiglie e visto che ci siamo, anche la musica.

TriBeCa vive una personality crisis, un conflitto di identità. Vincono film stranieri o solo parzialmente prodotti negli Stati Uniti, le pellicole ambientate a New York City non sono che una misera manciata, e visto che le categorie non sono abbastanza confusionarie, mettiamoci in mezzo anche una sezione online. E poi l’onnipresente blockbuster d’apertura, giusto per recuperare qualche dollaro in endorsement. E dato che la banalità quest’anno la fa da padrone, insieme alla passione enologica di Susan Sarandon, vai di The Avengers. Bruttino. Nemmeno brutto. Non ha abbastanza personalità per esserlo.

Kim Nguyen

Ogni Festival si comporta a mo’ di monade leibniziana nei confronti dell’organismo ospite, e in quest’ultimo TriBeCa risultano rintracciabili tutte le tendenze e i drammi che percorrono il Cinema americano degli ultimi tempi. Per confondere le acque però, la giuria decide di premiare nella categoria Narrative un film africano dal contenuto sociale, War Witch di Kim Nguyen. Ma qui non siamo a Cannes e nemmeno a Venezia. Il riconoscimento più alto per un film americano, ma ambientato a Cuba e interpretato in spagnolo, va alla fotografia di Una Noche, di Lucy Molloy. Per il resto è una mesta processione di film di spionaggio, thriller non-thriller, e poi il poker, perché insomma, si deve. E, ça va sans dire, commedie sentimentali che non fanno né ridere né emozionare.

Io nutro, devo ammetterlo, un particolare disprezzo per quest’ultima tipologia. Insomma, preferisco che mi si infarciscano le battute con flatulenze e vocalizzi vari, piuttosto che assistere al patetico spettacolo del “ridere sofisticato”. Allora mi immagino un gruppo di laureati stitici che si danno di gomito per le loro boutade intelligenti e sensibilissime. Si ride di cuore, di testa e anche di apparato digerente, volendo. É la scrupolosa pianificazione volta a suscitare un determinato sentimento che mi infastidisce.

The Giant Mechanical Man

Per esempio, film come The Giant Mechanical Man, di Lee Kirk, esordiente nella seziona Narrative, ritengo andrebbero aboliti per legge. A parte il casting, un florilegio di esiliati della TV, da That 70s Show (Topher Grace) a Will E Grace (Sean Hayes) a Mad Men (Rich Sommer) a The Office (Jenna Fischer), la trama è quanto di più trito, vapido e insipido sia consentito concepire. Lei (Jenna Fischer) è una romantica confusa, non sa cosa fare della propria vita, perde un lavoro dopo l’altro e finisce a casa della bionda sorella di successo (Malin Akerman), che tenta di accoppiarla con un autore di libri di auto-aiuto (Topher Grace). Ma lei non ha occhi che per il bel collega detergi-vespasiani (Chris Messina), che però è in realtà un profondissimo artista di strada che ha capito il vero senso della vita.

Il succo della storia è più o meno questo e viene consegnato a battute la cui sofisticazione di poco si scosta dalla mia sommaria ricognizione. Una scrittura da soap opera che si sostiene su di una messa in scena ben educata. I toni neutri del grigio e del marrone scandiscono azioni stereotipate e parole pregnanti come gocce di pioggia. Ed ancora una volta cadiamo vittima della convinzione che essere indipendenti equivalga al depotenziamento dei dispositivi rappresentativi. A forza di sottrarre, non è rimasto neppure lo scheletro di quella che una volta era una macchina generatrice di sogno ed emozione.

Less is more”, amano ripetere qui. “Il meno è di più”.

Forse spesso, ma non sempre.

Stefania Paolini