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Chili Film

‘La vedova allegra’, un classico di Ernst Lubitsch da (ri)vedere

Disponibile su Chili, la musicale sophisticated comedy tra le più leggiadre e felici del maestro mitteleuropeo dell’età d’oro di Hollywood

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Dopo la versione muta di Erich von Stroheim (1925) e prima di quella del 1952 con Lana Turner, nel 1934 Ernst Lubitsch con La vedova allegra adattò l’omonima operetta viennese di Franz Lehár in una produzione targata MGM, con la collaudata coppia Maurice Chevalier e Jeanette MacDonald. Una visione di sontuosità registica, leggerezza ed ironia dei toni, effervescenza scenica che la piattaforma Chili propone in una copia di buona fattura, in lingua originale con sottotitoli.

Dentro un immaginario perduto

Se la sfida per un autore è garantire un’imperitura modernità alla sua singola opera, un dialogo intatto con il pubblico dei decenni a venire, Lubitsch (che nella politica dell’autorialità cinematografica gode di un’eccellenza storica, per essere stato tra i primi registi il cui nome capeggiava prima del titolo sui manifesti) certifica tale maestria nel suo novero di pregi, consegnandoci però una preziosa aggiunta con La vedova allegra, dove, oltre alla conclamata e ammirevole raffinatezza formale e alla garanzia di un divertimento garbato ma complice, si filma l’immersione ad occhi sgranati nell’incanto di un’immaginifica atmosfera d’epoca, di filigrana letteraria e pittorica.

Tra aristocratici interni ottocenteschi, la purezza di un folklore suadente, le vorticose feste parigine da Maxim’s, La vedova allegra regala oggi la nostalgia innocente per il non vissuto, il sogno impossibile di un paradiso perduto, lo splendore di equilibri figurativi rococò, di un prezioso décor, di una fotografia in bianco e nero così materica e setosa che indusse uno degli esperti del regista, Guido Fink, a definirlo “un film a colori”.

Si esordisce infatti con l’aura fiabesca di un regno inafferrabile e mitico nell’esotica Europa mitteleuropea e si prosegue con la grazia civettuola e malinconica degna di un racconto di Stefan Zweig; ci si inoltra con brio spumeggiante in intermezzi canori e coreografici da Austria felix e da parigina Belle Époque e negli ingranaggi della pungente commedia degli equivoci, navigando sempre tra i vertici del celebre e inimitabile Lubitsch touch, in un virtuosismo scenografico meritatamente premiato con l’Oscar.

Sinossi

1885. Il piccolo e fittizio stato di Marshovia è in angosciosa allerta: Madame Sonia è un’avvenente e dolce vedova, resa ricchissima dall’eredità del marito, di cui ora possiede la maggioranza delle proprietà del paese. Il suo nuovo soggiorno a Parigi, però, fa temere che qualche avventuriero straniero possa sposarla e rovesciare così un regno già dissestato nelle finanze. Il re e i suoi funzionari inviano a Parigi il fascinoso Conte Danilo, capo della Guardia reale e dongiovanni seriale, per conquistare e condurre alla nozze Madame Sonia. L’incontro tra i due e l’eventuale lieto fine sono però corollati da inconvenienti e false apparenze.

‘Il mondo di ieri’ secondo Lubitsch

Nello schema di contrapposizione, per mentalità e costume, tra un mondo vetusto in declino (Marshovia) e un mondo nuovo in frizzante e inarrestabile ascesa (Parigi) ricorrente nella filmografia del regista, la sceneggiatura, firmata da Lubitsch e dal fidato Samson Raphaelson e basata sul libretto di Victor Léon e Leo Stein, gioca sul motivo dell’equivoco e delle mentite spoglie, della concatenazione delle messinscene (che tripudiano in altri capolavori come Matrimonio in quattro, Il ventaglio di Lady Windermere, Mancia competente), alleandosi con l’infallibile direzione degli attori, dove Maurice Chevalier presta il suo fascino vellutato e sornione in frac e Jeanette MacDonald in abiti da sera in pizzo e organza offre preraffaelliti primi piani, oltre che numeri di danza.

Nella verve della loro intesa di sguardi, nell’armonia dei loro giri di valzer Lubitsch capta la loro giostra di attrazione e seduzione con quella poetica del limitare sulla soglia che è un tratto distintivo delle dinamiche di molti dei suoi personaggi, pennella le traiettorie di desiderio e i loro inciampi ingannevoli in quasi impercettibili long take e fluidi movimenti di macchina (d’altronde, a sostegno della riconosciuta perfezione della sua cinepresa, dichiarava che per una scena esistono innumerevoli opzioni di ripresa, ma una sola corretta).

Se gli altri interpreti cooperano assecondando l’umorismo del fraintendimento e le allusioni goliardiche alle libertà bon vivant di fattezza parigina, l’intero microcosmo di La vedova allegra popolato da re, regine, nobildonne, gentlemen, diplomatici, danzatrici e cortigiane (fonte di ispirazione per Wes Anderson in Grand Budapest Hotel) viene ammantato dalla raffinatezza degli arredi di Cedric Gibbons (premiato con l’Oscar) e dei costumi e accessori del leggendario Adrian, di Ali Hubert ed Eugene Joseff.

Attraverso queste collaborazioni Lubitsch ammalia con il suo “mondo di ieri” (per citare Stefan Zweig) intessuto di cappelli a cilindro, vestaglie ricamate, carrozze antiche, corridoi di specchi, soffitti maestosi, saloni da ballo, divanetti e baldacchini, piume e ventagli, diamanti e sottogonne da can-can, calligrafie svolazzanti, mirabolanti coreografie di massa virate su netti chiaroscuri come in una scacchiera.

Nell’estetica del regista non vi sono però stonature di accumulo, grandeur trasgressivo, svuotato narcisismo dell’immagine; non si coltiva una tendenza all’infrazione, all’eccesso, all’artificio consapevole e provocatore, come fecero altri esuli tedeschi e austriaci approdati a Hollywood: vige piuttosto la meraviglia della delizia, il gusto europeo per la leggiadria, mai riduttive e di mera superficie.

‘La felicità non è allegra’

Dietro la cinepresa scorrevole e invisibile nel miglior stile classico, l’apparato figurativo di sobrio splendore, la trama sentimentale da incastro studiato, i fulgidi e affabili interpreti, le tracce musicali opportunamente cadenzate nell’intreccio, Lubitsch non manca di instillare il suo sarcasmo verso l’alta società, il suo taglio caustico ai convenevoli istituzionalizzati, gli ammiccamenti piccanti, l’ironia sorridente che abbraccia un edonismo salutare. Subentra quindi l’immancabile e identitario Lubitsch touch,  con cui, come ha scritto Guido Fink, “il non detto, il silenzio, il non visto, contano quanto le parole e le immagini”.

Ed ecco che Madame Sonia viene a conoscenza della fama di donnaiolo del Conte Danilo quando le sue cameriere le rivelano a turno l’indirizzo completo dell’uomo; una cintura dimenticata e troppo stretta può alludere a un tradimento extraconiugale; il complotto nuziale ai vertici di Marshovia si applica anche con l’imbottitura a un divano e una spruzzata di profumo maschile; una gag di futile gelosia tra il Conte e un funzionario si articola su un andirivieni sulla porta di Maxim’s.

“Sto piangendo perché sono troppo felice”, spiega Sonia a Danilo quando sa che un impedimento si frappone al loro fidanzamento, in una delle migliori scene intimistiche del film, quando la sceneggiatura si avvia a ostacolare in penultima fase il sospirato happy ending. Ed anche questo non sarà esente da un contesto gravoso per i due protagonisti.

In questo modo, oltre alla signorile frivolezza di Danilo, l’intraprendenza gaudente di Sonia a Parigi, la spensierata leggerezza del bel mondo, qualcosa si incrina nella possibilità, seppur afferrabile, del dolce vivere e dell’amare. Quasi a parafrasare il titolo ossimorico del film, dove l’allegria si abbraccia alla condizione della vedovanza, quindi alla morte. E un altro grande connazionale di Lubitsch, Max Ophüls, chiuderà Il piacere (1952) con la battuta: “La felicità? La felicità non è allegra”.

 

  • Anno: 1934
  • Durata: 99'
  • Genere: Commedia
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Ernst Lubitsch

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