Lisa Nur Sultan: quando la sceneggiatura è una conquista
L’intervista ad una tra le sceneggiatrici più produttive e versatili di questi anni, con cui abbiamo riflettuto sulla professione dello sceneggiatore condividendo i racconti della sua lunga strada per arrivare fino a qui
Per l’evento “La scrittura è donna” che si è tenuto a Cetona in occasione del lancio del Premio Ruggero Maccari 2023/2024, le cui iscrizioni sono aperte fino al 31 luglio, abbiamo incontrato Lisa Nur Sultan.
Vincitrice di 4 Nastri D’argento, Globo D’Oro, Premio Amidei, finalista ai David, è la penna che sta dietro a film importanti come il suo esordio Sulla mia pelle di Alessio Cremonini (2018) o il successo di Natale 2022 per Sky, Beata te diretto da Paola Randi. Ma anche delle serie Rai Studio Battaglia (2022) e non ultimo il fortunato Call my agent – Italia (2023), per cui è in preparazione per Sky la seconda stagione.
Con Lisa Nur Sultan abbiamo ripercorso i momenti fondamentali della sua carriera, partendo dal come è arrivata alla sceneggiatura dopo la laurea in Economia e quanta dedizione, fortuna e buone idee ci sono volute per approdare al riconoscimento professionale. Il risultato è una chiacchierata aperta, onesta e piacevole, raccontata con lo stesso potere accattivante e affabulante della sua scrittura per lo schermo.
Call my agent – Lisa Nur Sultan (ultima a destra) e i collaboratori. Foto Ciro Maggiolaro – Sky Italia
Lisa, quando hai iniziato a scrivere e perché proprio la sceneggiatura, visto che hai una formazione completamente diversa (una laurea in Economia all’Università Bocconi di Milano).
Ho iniziato a scrivere prestissimo e anche se ho sempre detto che volevo fare la scrittrice, sin da piccola, poi è come se l’avessi completamente rimosso o censurato per tantissimi anni, tantissimi. Mi sono laureata in Economia a Milano nel 2003, e ho fatto un percorso completamente diverso. Dalla Bocconi sono uscita…fa ridere adesso definirsi No-global, ma non lo rinnego; comunque non potevo immaginare di lavorare per una multinazionale, per un’azienda.
Quindi mollo tutto subito dopo la laurea, prendo una valigia, scendo a Roma, senza conoscere niente nessuno e dico: adesso voglio scrivere.
Lì ha inizio una gavetta incredibile e molto variegata perché in 10-15 anni ho scritto cose delle più disparate:dal teatro alla radio alla televisione. La primissima opportunità seria, quella che considero il mio primo lavoro vero, la mia prima formazione vera, è stato Un posto al sole, nel 2005. Avevo sempre voluto vivere a Napoli,era una città che avevo sempre avuto nel cuore. Ho fatto uno stage di un mese, poi mi hanno proposto di fare un test su una puntata e mi hanno preso, sono rimasta a lavorare lì.
È stata un’esperienza formativa divertentissima – sono ancora molto amica degli sceneggiatori -, mi hainsegnato una disciplina e una dedizione alla scrittura che poi mi è servita molto. Perché quando sei in una macchina così grossa, e sei giovane e inesperta come ero io, ma senti la responsabilità di tutta la filiera che sta aspettando, non puoi permetterti di bucare la consegna. Non puoi proprio.
In Italia si tende sempre a ripetere “se non hai una spinta non ce la fai, in Italia lavorano solo gli amici degli amici”… invece ci sono poi delle situazioni e dei momenti, dei contesti e delle persone che semplicemente ti fanno un test dal nulla e dicono “ok, ce la puoi fare”.
Gli interpreti di Un posto al sole, qualche anno fa
Quel lavoro per me all’epoca era stata una svolta sia in termini di fiducia che qualcuno mi dava, che in termini economici perché mi sembrava di essere di colpo diventata ricchissima. All’epoca veramente i ragazzi venivano in generale affamati: avevo tantissimi amici che lavoravano nell’editoria e guadagnavano 500 € al mese. A Roma con quella cifra non campavi neanche con una stanza in condivisione, e parlo del 2005.
Quindi mi ricordo questo colloquio in cui mi dicono “Guarda purtroppo possiamo pagarti molto” e mi dicono una cifra. Io dentro di me: pensavo meglio, ma a Napoli la vita costa meno, sono abituata a star stretta, dai… e poi mentre parliamo capisco che intendono a settimana. Mi iniziano a tremare le gambe e penso: non ho capito bene. Però non voglio far vedere che mi ha colpito questa cosa, quindi rimango impassibile e faccio la disinvolta. Uscita, mi allontano dalla Rai di Napoli, mi metto ad urlare, chiamo i miei genitori…non ci potevo credere. Finalmente mi potevo mantenere, e vivere a Napoli. E gli anni napoletani sono stati anni meravigliosi, in cui ho anche scritto per il teatro.
Dopo un po’ ho capito che lì non sarei riuscita a scrivere nient’altro, perché la routine settimanale era davvero troppo stringente per me, non mi lasciava la forza di scrivere una riga in più. E allora – con il coraggio demente e presuntuoso dei 26 anni – sono tornata a Roma, convinta che avrei subito trovato lavoro nel cinema.
E lì che inizia la fame mostruosa, mostruosa. Non avevo contatti, non avevo fatto il Centro Sperimentale; venivo dalla televisione, percepita da un certo ambiente come spocchia, e quindi inizio a fare teatro, poi faccio radio… e dopo tantissimi lavori scritti e non girati, ma tantissimi, ad un certo punto torno anche a campare. È stata una prova di sopravvivenza, però in questa sopravvivenza faticosissima e frustrante, credo anche di essere migliorata moltissimo. Perché poi alla fine la scrittura, come anche la recitazione, è qualcosa che impari facendo. Tutta la presunzione che si ha da giovani la capisco e la riconosco perché penso che ce l’abbiamo avuta tutti; però cavolo, quanto fa la pratica! Anche per come ti devi relazionare alle note, alle critiche e alle scadenze. Alla scrittura stessa.
Per cui per fortuna sono scampata. Pensare a tantissime registe brave che non hanno mai esordito, a tante mie colleghe che hanno cambiato lavoro, mi spezza il cuore: perché si trattava di scavallare quella decade [della crisi economica, ndr.] in cui non veniva prodotto niente, e quello che si girava non era certo lasciato agli esordienti. Infatti, tutta la prima stagione di Call my agent è imperniata sul fatto che i successi vanno saputi vedere prima, perché dopo…son bravi tutti…
In più c’era la frustrazione: scrivevo come sceneggiatrice, ma non potendo “vedere” niente, io non mi sentivo una sceneggiatrice… Per fortuna ho tenuto duro, e alla fine il primo film che è stato girato è stato Sulla mia pelle. Quello è stato per me uno spartiacque e da quel momento diciamo che un po’ tutto è cambiato, sono arrivate offerte di lavoro, soddisfazioni, era ufficialmente finita la gavetta. E io ero pronta.
Dopo Sulla mia pelle però avevo proprio la necessità di staccarmi da un dolore che è stato per me indicibile; un dolore che ho somatizzato, che mi son portata dietro per un anno, avevo gli incubi. Ho capito anche che non devo più affrontare le cose in modo così immersivo e coinvolto, ma in quel caso mi era proprio difficile non viverla in quel modo. Anche perché nello studio di quelle famose 11.000 pagine di atti, ci sentivamo anche un po’ vendicatori di una giustizia che non era ancora stata fatta. Sentivo una responsabilità enorme, verso tante persone. Perché all’interno di un una storia così complessa, ci sono i colpevoli non beccati, ma ci sono anche gli innocenti che sono stati tirati in mezzo. Per cui non volevo riacutizzare il dolore di qualcuno che magari non c’entrava.
Mi interessava ragionare non solo su di uno Stato che si volta all’altra parte, ma anche della società che si volta dell’altra parte. Se 144 persone vedono qualcuno che sta per morire e non dicono niente, pensi “forse potevo essere anch’io tra quelle 144 persone”.
Avendo bisogno di cambiare registro completamente appena dopo Sulla mia pelle ho proposto a Olivia Musini di scrivere Beata te. Avevo voglia di raccontare qualcosa che andasse all’opposto, stare in un mondo diversissimo, entrare in una favola, sullo spunto dello spettacolo che avevo visto, Farsi Fuori di Luisa Merloni, per poi raccontare qualcosa di molto personale – e politico, perché qualunque racconto sul corpo delle donne inevitabilmente lo è.
Hai lavorato su adattamenti di diversa provenienza (il teatro, il format televisivo, addirittura gli atti processuali di una storia vera); cosa senti che ti manca e quale invece è l’ambiente dove ti sei trovata meglio a lavorare?
Sono una persona molto curiosa, che si annoia a morte, perciò ho bisogno di cambiare tantissimo. E quindi per me è abbastanza normale l’idea di scrivere dei lavori così diversi, ed è quello che vorrei continuare a fare.Penso anche di essere fortunata nel sapermi muovere abbastanza, tra la commedia, il dramma… Non era scontato perché credevo di saper fare solo commedia; poi Sulla mia pelle mi ha fatto capire invece che potevo proprio esplorare altri ambiti. Nel frattempo infatti avevo adattato anche Non mentire (2019), che era una serie thriller di Tavarelli per Canale 5, un’operazione folle di cui sono molto contenta anche considerando che l’ho riscritto in un mese. È vero che è un adattamento, ma un mese per 6 sceneggiature da 50 minuti, è più di una a settimana.
Il thriller è un territorio che mi piace, così come il noir. Quello che mi manca adesso è forse tornare ad avere un film da festival, non solo per il concetto di film da festival, ma perché non si può esordire con Sulla mia pelle e poi non avere più la possibilità di confrontarsi con qualcosa che non sia televisione o commedia. Al momento sono molto soddisfatta, non posso lamentarmi tranne che della fatica e dell’approssimazione con cui si lavora a questi ritmi. Però le cose migliori che ho scritto sono tutte non ancora girate e probabilmente non lo saranno mai. E sono molto spesso idee mie.
Io sono un’autrice che ama partire dalle proprie idee, non aspetto la chiamata. Per cui se mi viene in mente di lavorare su qualcosa, ci lavoro, anche per mesi, da sola, senza che lo sappia nessuno, e poi cerco di venderlo. Questo chiaramente ha lati positivi e negativi: il lato positivo è che lavoro su cose che mi interessano, e ho totale libertà e controllo. Il lato negativo è che poi di solito le vendo ma spesso non vengono girate, perché non hanno ancora attaccata la distribuzione o il broadcaster come quando vieni chiamato per un progetto.
Quindi lì sorge la frustrazione, anche perché lavorando tanto e spesso anche su cose che hanno bisogno diuna documentazione, di cui mi appassiono tantissimo… e poi [queste storie] le conosciamo io e chi le ha comprate. Anche questa cosa qui non è più fattibile. Infatti, mi sto facendo delle domande, perché alla fine se tutti questi soggetti, trattamenti e sceneggiature fossero state dei romanzi, ne avrei già scritti dieci. Equalcuno li avrebbe anche letti.
Quali sono i limiti più grandi in Italia legati al fatto di essere donna e sceneggiatrice?
So benissimo quanto sia faticosa la gavetta, quanto sia frustrante quando non ti fila nessuno. Non ci si può lamentare in un momento in cui si ha un discreto successo evidente. Però adesso ci sono altri parametri per me: magari non ho più l’assillo economico, però l’assillo di sentirmi più vicina alle cose che scrivo, più rappresentata. Tant’è vero che in tutto ciò, Beata te è una delle cose che mi dà più orgoglio. Nonostante creda che molti possano anche sottovalutarlo. Perché spesso le commedie marchiate come “femminili” vengono liquidate banalmente col non vedendole. Ma io so benissimo cosa abbiamo voluto fare (io, Carlotta Corradi, Paola Randi, Luisa Merloni, Olivia Musini), e sono anche molto contenta del risultato finale, grazie principalmente a Paola, e grazie a Serena Rossi e Fabio Balsamo che sono stati generosi e bravissimi.
Meritava un’uscita al cinema, perché le commedie vanno viste in sala, ma pazienza. Infatti ringrazio Cetona e gli altri festival che vorranno proiettarlo, è bellissimo vederlo col pubblico. Ieri sera sentivo la risate e pensavo “ma guarda che veramente questa cosa è carina e funziona”, e sono contenta. Ma ricordo che per vederlo ho dovuto tenere duro dal 2017: vuol dire credere sempre nella bontà di una cosa quando tutto il resto del mondo continua a dirti che non lo è. E ci vuole anche presunzione ad andare avanti.
È in questo che vedo più differenza fra il maschile e il femminile: perché veramente penso che per noi donne sia più dura riuscire a dire “no questa è una buona idea” quando qualcuno ti dice che non lo è, o meglio: non lo è abbastanza. Perché siamo talmente abituate ad essere sottovalutate che abbiamo abbassato la nostra autostima percepita.
Le donne sono mediamente piene di dubbi e di sentimenti di inadeguatezza, ed è il motivo per cui ci sono meno registe donne. Perché il regista l’unica cosa che deve avere è la sicumera nel fingere di avere tutte le risposte; può non averle, ma deve fingere di averle tutte. E le donne questo ce l’hanno di meno, si danno meno l’autorizzazione ad essere il capo perché ci sentiamo un po’ scomode nel dichiarare di avere la presunzione di comandare, perché appunto la percepiamo come presunzione.
Questa è la cosa più difficile. Riuscire ad andare davanti ad una persona e dire “io credo di avere qualcosa da dire, leggi”: ci ho messo penso vent’anni a farlo, spero che le giovani ragazze ce ne mettano di meno.
Come scrivi e come cambia il tuo metodo e la tua routine di lavoro se si tratta di un prodotto seriale oppure di un progetto per il cinema?
Negli anni ho affinato moltissimo il mio metodo e ho capito come funziono meglio. Attualmente io mi sveglio prestissimo la mattina, anche 5:30 d’inverno, e ho bisogno di andare al bar, quando li trovo aperti, e starci tanto. Di solito alle 6 sono al bar, leggo tanti quotidiani, leggo pezzi di libri, scrivo, ho bisogno di farmi i fatti miei. Ma lo faccio dal primo anno di ginnasio, un’abitudine banale che ti si fissa a 13 anni – per motivi concreti: il pullman mi scaricava a Pavia un’ora prima dell’apertura del liceo – e diventa poi l’unica certezza della tua vita. Posso essere ovunque, ma devo iniziare al bar con dei giornali davanti. Dopo un’ora di lettura di giornali e di libri, inizio a scrivere su di un quaderno, a mano, quello che mi serve per quel giorno.
Spesso ci sto tanto, se vedo che sto scrivendo bene ci sto proprio tanto, con un problema di abuso di caffeina perché poi non puoi occupare un tavolo per 3 ore, io mi sento in colpa su tutto, quindi continuo ad ordinare…
Inizio a scrivere e le idee migliori mi escono sempre lì, in quelle prime 2 ore, le battute, le strutture, arriva tutto lì. Poi verso metà mattina, torno su in casa e ributto al computer quello che c’è di buono, quello che c’è nel mio quadernino. O se c’è da scrivere seriamente inizio a macinare scene. Scrivo più o meno fino verso le 2; poi mi fermo, pranzo, e quando non sono proprio sotto consegna, tendenzialmente se ho lavorato bene la mattina, ioil pomeriggio non scrivo. Faccio piuttosto cose che hanno a che fare con la formazione o la preparazione: tutta la parte del pomeriggio e della sera è quello che mi nutre. Nel senso che leggo, guardo film attinenti,vado a vedere una mostra, faccio una passeggiata, ma non scrivo più: perché ho capito che le ore di scrittura buona per me sono quelle della mattina e fino al pranzo.
Ho passato tanti anni a forzarmi a raggiungere anche le ore del pomeriggio, ma poi ho capito che non aveva senso. Usciva una scrittura non di qualità, tantissimo tempo perso e distratto.
Qual è la tua speranza per il futuro in relazione al tuo modo di lavorare?
Io credo che in questi anni in cui c’è stata veramente una sovrapproduzione, alcuni la chiamano bolla e forse è anche già scoppiata, ma insomma una produzione accelerata, purtroppo abbiamo tutti lavorato troppo e troppo velocemente. A partire dagli scrittori e poi quindi a cascata tutti i reparti. Perché chiaramente se noiscriviamo in maniera veloce, contratta e meno sedimentata, i registi non hanno tempo di preparareadeguatamente, gli scenografi fanno la scenografia in fretta, i costumisti si trovano dei personaggi all’ultimo minuto… E gli attori – che poi sono l’anello più delicato – sono costretti a prepararsi superficialmente. È una catena di gente che purtroppo vive in maniera esaurita, tra l’altro, lavorando male rispetto al proprio standard.
Per cui spero che torneremo, a partire da noi scrittori, a non accettare più dei tempi di lavoro che una volta non erano proprio pensabili; e soprattutto che i produttori e i broadcaster capiscano che non è questo il modo per produrre cose che resteranno, né per far fiorire un’industria. Perché se un cavallo lo stremi il cavallo è morto. Anche se è un talento, il cavallo è morto, quindi non è che l’hai spremuto, l’hai stroncato. E questo sta succedendo, con il burn-out e con tantissime cose che purtroppo stiamo somatizzando in tanti.
E invece siamo tutti entrati in una ruota da criceti, perché appunto le piattaforme continuano a chiedere chiedere chiedere e soprattutto perché ti dicono abbiamo questa scadenza tanto sappiamo che ce la fate. Ce la facevamo, però sarebbe meglio non farcela così. Inoltre, sarebbe meglio allargare un po’ il giro, perché poi ci sarà ancora tanta gente che non ha ancora avuto l’occasione che meritava: quindi lavorare meno, lavorare meglio e lavorare tutti, questo è ciò che ci auguro.