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La scomparsa di Milan Kundera, scrittore cecoslovacco autore de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”

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“C’è un legame segreto tra lentezza e memoria, fra velocità ed oblio. Prendiamo una delle situazioni più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto, cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi, invece, vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo.  Se si accelera il passo è per farci ricordare che ormai non aspira più a essere ricordata, che è stanca di se stessa, che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria.”

Il brano è tratto da “La lentezza” di Milan Kundera, scrittore cecoslovacco, naturalizzato francese, premiato Oltralpe con la Legion d’onore (e mai con il Nobel per la letteratura), scomparso ieri a Parigi all’età di novantaquattro anni.  Un brano, a mio parere magico e profondo, che sottolinea la grandezza di uno scrittore che, paragrafando la famosa affermazione di Camus “ha sistemato la sua poltrona nella direzione della  Storia.”

Autore prolifico di romanzi (“L’identità”, “La vita altrove”, “Lo scherzo”, “L’ignoranza”…) e di saggi illuminanti (“Il sipario”,”I testamenti traditi”, il già citato “La lentezza”) ha dominato per decenni la scena culturale europea.  L’invasione russa del 1968 nella sua terra natia lo ferisce al tal punto che nei suoi saggi, come ne “Il libro del riso e dell’oblio”, più che rievocare la tragicità dei fatti allora accaduti, sottolinea il rischio che le nuove generazioni possano dimenticare l’orrore compiuto in quegli anni.

“E perché neanche l’ombra di un brutto ricordo disturbasse il paese nel suo ritrovato idillio, bisognava annullare definitivamente la primavera di Praga e l’arrivo dei carri armati sovietici, questa macchia sulla bellezza della storia. Per questo oggi in Boemia nessuno commemora  l’anniversario del 21 agosto e i nomi delle persone che sono insorte contro la loro stessa giovinezza, sono stati accuratamente cancellati dalla memoria del paese come un errore in un compito scolastico”.

E successivamente:

“Per liquidare i popoli, diceva Hilbl, si incomincia col privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri e li fornisce di un’altra cultura, inventa per loro una nuova storia.  Dopodichè il popolo comincia  lentamente a dimenticare quello che  è e quello che è stato. E il mondo attorno a lui lo dimentica ancora più in fretta”.

A chi gli chiedeva se fosse comunista, dissidente, di sinistra o di destra, Kundera amava rispondere, in maniera lapidaria: ”No, sono un romanziere”. Nei suoi preziosi saggi ha discettato sapientemente, e con sguardo critico, su tutto lo scibile umano; dalla pittura, alla musica, dalla scienza alla letteratura. Nel magnifico “L’arte del romanzo”, proditoriamente afferma: “Il romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale.” A suo dire la santissima trinità del romanzo era costituita da Proust, Joyce e Kafka ma, nei suoi scritti cita, tra gli altri, Cechov al quale, ironicamente, contestava di non aver mai scritto un romanzo, Omero e Virgilio, Breton, Balzac, Flaubert, Dante e Boccaccio.

Assunto agli onori anche del grande pubblico con il romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” (1984), nel già citato “L’arte del romanzo” offre la chiave per comprendere l’essenza di quel magnifico titolo.

“Ho pensato alla famosa formula dell’uomo di Descartes: “l’uomo signore e padrone della natura:”. Dopo aver compiuto miracolo nelle scienze e nelle tecniche, questo”signore e padrone” si rende improvvisamente conto di non essere padrone di nulla e di non essere signore né della natura (che si ritira a poco a poco dal pianeta), né della Storia (che gli è sfuggita di mano), né di se stesso (guidato com’è dalle forze irrazionali della sua anima). Ma se Dio se n’è andato e l’uomo non è più padrone,  il padrone chi è? Il pianeta procede nel vuoto senza padrone alcuno. E’ appunto l’insostenibile leggerezza dell’essere.”

Il successo planetario del suo romanzo non poteva non attirare l’industria cinematografica e nel 1988, Philip Kaufman, in una produzione a stelle e strisce, lo traspone sul grande schermo. Ecco in sintesi la trama:

Praga. 1968. Grazie al suo fascino, Tomas (Daniel Day-Lewis), stimato neurochirurgo, seduce le infermiere più belle dell’ospedale. Seppure attratto da Sabina (Lena Olin), una sensuale pittrice, con la quale ha una travolgente relazione, s’innamora della dolce Tereza (Juliette Binoche), una modesta cameriera di paese, con la passione per la fotografia, e la sposa. Pur non essendo politicamente impegnato, Tomas pubblica un articolo “Re Edipo”, nel quale si interroga su come sia cambiato il concetto di etica nei secoli; un tempo, Edipo per i sensi di colpa, si cavò gli occhi, dopo aver scoperto di aver ucciso il padre e aver sposato la madre; attualmente, invece, oggi. politici e funzionari cecoslovacchi, complici della repressione messa in atto dal governo russo, a danno di centinaia di connazionali torturati, giustiziati e rinchiusi nelle carceri, rimuovono quanto sia successo allora. Nel bel mezzo di quella stagione, definita “la primavera di Praga”, durante la quale il popolo cecoslovacco si batte per la completa riabilitazione dei perseguitati e per la libertà di parola e di stampa, i russi reagiscono, invadendo la Cecoslovacchia. Tereza, che intanto si strugge per i continui tradimenti di Tomas, inizia a fotografare i connazionali uccisi e feriti e i carri armati russi che hanno invaso le strade di Praga. Per aver consegnato un rullino a dei turisti olandesi, è fermata dalla polizia. Lei e Tomas decidono allora di trasferirsi a Ginevra, dove si era rifugiata anche Sabina, che si lega a Franz (Derek De Lint), un docente universitario e attivista politico.  Tomas trova lavoro come medico e Tereza, stanca dei suoi tradimenti, ritorna a Praga. Tomas, senza più passaporto, la segue e, in ragione del suo vecchio articolo, non può riprendere a lavorare in ospedale finché non ritratta quanto scritto in passato. I due vanno a vivere in campagna, ospiti di un vecchio amico contadino, testimone delle loro nozze, dove finalmente ritrovano un pizzico di serenità. Una notte, dopo una festa, per un incidente d’auto, perdono la vita entrambi. Sabina apprenderà la notizia negli Stati Uniti dove vive da tempo da sola.

Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Milan Kundera e sceneggiato dallo stesso regista con Jean Claude Carriere, il film si snoda su due piani; quello della storia che coinvolge i protagonisti della vicenda e quello della Storia, con la S maiuscola, che descrive l’invasione russa  in Cecoslovacchia. Tomas è descritto come uno spensierato e inguaribile dongiovanni, a caccia di avventure e alla costante ricerca di quel dettaglio che rende una donna diversa dalle altre. Assetato di libertà che non piega la testa di fronte al Potere e, pur amando il proprio lavoro, non recede dalle proprie battaglie, in cambio del posto in ospedale. A dargli questa forza interiore, è proprio la fragile e tenera Tereza, una creatura semplice, ma pulsante che, sconvolta da quando sta accadendo nel suo Paese, rifiuta l’allettante offerta di fotografare cactus e modelle e scende in piazza a immortalare gli orrori di quei giorni. Kaufman indugia un po’ troppo sulle scene di sesso, anche se patinate e mai pruriginose, che fungono da netto contrasto con le immagini dure dei filmati di repertorio in bianco e nero che testimoniano quella terribile invasione.

In conclusione, nel giorno della sua scomparsa, come non ringraziare commossi un saggista e romanziere che ci ha fatto sognare con le sue pagine bagnate di pura poesia? Lo salutiamo con una sua citazione presa a prestito da Jan Skacel: “I poeti non inventano le poesie. La poesia è in qualche posto, là dietro, è là da moltissimo tempo.: il poeta non fa che scoprirla”.

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