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Conversation

‘Come pecore in mezzo ai lupi’ conversazione con Lyda Patitucci

Come pecore in mezzo ai lupi è il racconto di un'umanità in credito con la vita. Del film abbiamo parlato con la regista Lyda Patitucci

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Lyda Patitucci

Vivere e morire a Roma. Come pecore in mezzo ai lupi di Lyda Patitucci è una crime story che non  fa sconti alle vite dei suoi personaggi. Del film abbiamo parlato con l’autrice del film.

Come pecore in mezzo ai lupi è il lungometraggio di Lyda Patitucci con Isabella Ragonese. Il film è  distribuito da Fandango.

Lyda Patitucci

L’inizio del film di Lyda Patitucci

L’inizio del film è quasi allegro, baldanzoso. Il brio musicale della colonna sonora e la divertita conversazione sul furto compiuto ai danni di Kim Kardashan non lascia presagire il drammatico evento che di lì a poco investirà la storia.

Le immagini iniziali sono una vera e propria dichiarazione di intenti. Iniziare con una forma allegra e scanzonata contribuisce a confondere le acque non facendoti capire quanto sia vero ciò che viene raccontato. In realtà l’ispirazione proviene da un fatto realmente accaduto. Mi riferisco alla rapina commessa ai danni di Kim Kardashian in un Grand Hotel di Parigi, che vede tra i principali sospettati le cosiddette Pink Panther, noto gruppo malavitoso di origine balcanica. L’intenzione era quella di inquadrare i personaggi senza svelare troppo di loro, e dunque non facendo capire se parlavano di un evento reale o inventato. Dalle prime immagini il personaggio di Isabella Ragonese dà l’idea di essere allineato a tale contesto, fino a quando quella calma apparente è interrotta dall’uccisione improvvisa di una donna.

In quella che è un una lunga introduzione alla storia emerge un altro aspetto della poetica del film. Alla pari di un film come Vivere e morire a Los Angeles, anche nel tuo lo spettatore capisce subito che nessuno è al riparo dal rischio di morire. Come pecore in mezzo ai lupi lo fa capire allo spettatore in maniera spiazzante.

Lyda Patitucci

Questa è esattamente la linea che volevo seguire. L’omicidio della ragazza era un modo per suggerire allo spettatore che la stessa cosa potrebbe succedere anche a Stefania se venisse scoperta. Vederla allineata agli altri, facendo finta che non sia successo nulla, per me è una cosa molto forte come spettatrice. Qualche secondo dopo l’omicidio la vediamo uniformarsi al resto della gang, sforzandosi di ignorare l’accaduto facendo finta che non sia successo nulla. Come poliziotta sotto copertura ti aspetteresti di vederla uscire allo scoperto, ma il fatto di non avere prove dirette sull’accaduto manderebbe a monte mesi di indagini. Come essere umano rinunciare ad agire le costa molto a livello emotivo. Non senza difficoltà è costretta a mantenersi salda nel proprio ruolo e qui, secondo me, c’è già la chiave di tutto il film.

Peraltro quella morte improvvisa e il fatto che a essere uccisa sia una giovane ragazza la dice lunga sulla crudeltà di un male che non risparmia nessuno. Neanche i più deboli.

Sì, è spietato come lo sono gli esseri umani e più in generale come può esserlo la vita. È una visione molto diretta e secca la mia che ho cercato di trasmettere al film attraverso la messinscena e il montaggio, epurato da fronzoli e concessioni che spesso come registi ci concediamo. Mi interessava seguire il ritmo della vita che ho cercato di assecondare anche nella sequenza dell’assalto finale in cui ho puntato più alla verosimiglianza che alla spettacolarità.

La protagonista

Essenziale è anche il modo in cui hai affrontato il discorso legato all’esibizione di potenza e carisma della protagonista. Ne dai conto, prima ancora dei titoli di testa, in una serie di frame che riprendono il corpo di Stefania impegnato in una sessione di allenamento molto serrato. La brevità dell’assunto suggerisce la volontà di andare oltre la spettacolarizzazione del corpo femminile – nei film americani ipertrofico e muscolare – per privilegiare un percorso di introspezione collegato alla vicenda esistenziale del personaggio.

Sì, questo era l’intento. Più che gonfiarlo il corpo di Stefania a me piaceva indurirlo. In generale con Isabella e Andrea Arcangeli, che interpreta il fratello di Stefania, abbiamo fatto un lavoro opposto. Quello di Isabella si è rinforzato e indurito mentre l’altro è stato come prosciugato della sua naturale fisicità. Anche perché sono due personaggi con un’energia vitale antitetica. Lui è più famelico di vita: consuma e si autoconsuma, dandosi anche molto agli altri. Lei, al contrario, tiene tutto dentro. Incamera le cose in un enorme guscio che è il suo fisico ma ancora di più la sua personalità. Attraverso Stefania volevo un po’ giocare con il culto della forma fisica, quella ricercata spasmodicamente dai poliziotti delle crime story americane. Con l’aggiunta di un qualcosa in più che è la tinta dei capelli, foriera di diversi significati. Quello di coprire la propria identità, ma anche di soddisfare un semplice vezzo femminile. In ambedue i casi siamo di fronte a uno dei tanti non detti presenti nel film. Non mi piace dare troppe spiegazioni. Preferisco che le cose arrivino da un punto di vista epidermico, anche se per una parte del pubblico questo potrebbe essere un limite alla ricezione della storia. Come pecore in mezzo ai lupi è stato girato in sottrazione.

Il lavoro di sottrazione di Lyda Patitucci

Un lavoro di sottrazione in cui hai fatto buon uso degli stereotipi tipici del genere. Questi ultimi, con la loro forte caratterizzazione e riconoscibilità ti hanno permesso di inquadrare il personaggio senza ricorrere a ulteriori spiegazioni oltre a quelle già presenti nelle immagini. Penso, per esempio, al disagio esistenziale di un mestiere, quello del poliziotto sotto copertura, che appartiene anche a Stefania, consumata dalla sua “doppia vita”. Il superomismo tipico di tante crime story diventa in Stefania l’occasione per un’introspezione psicologica in cui fragilità e debolezze sono il viatico per una rappresentazione veritiera e rigorosa.

Sì, questa cosa ribalta certe consuetudini e per questo mi sembrava molto interessante. Mi fa piacere sentirlo dire perché evidentemente è un aspetto che viene fuori, il che non è sempre scontato. Rispetto alla tua domanda ti dico che, sì, questa era l’idea, anche perché a me interessano soprattutto i personaggi. Mi piace come si muovono, mi piacciono i contesti criminali perché sono pieni di situazioni un po’ al limite che permettono di raccontare al meglio l’essenza dell’essere umano. Poi è vero quello che dici, cioè penso che in certi momenti sia bene avere delle basi rassicuranti che già da sole riescano a raccontare la storia. Parliamo di narrazioni sperimentate e consolidate da un numero infinito di film. Avvalersene può essere utile allo scopo.

Lyda Patitucci

Così hanno fatto tutti, anche i grandi, e cioè partire dagli archetipi variandoli con la propria poetica.

Sì, anche quando sono regista non riesco mai a dimenticare la Lyda Patitucci spettatrice. Egoisticamente viene sempre al primo posto, per cui a me quel tipo di cinema piace veramente tanto ed è naturale rifarlo quando giro un film.

Il corpo degli attori

Riprendendo il filo del discorso con il lavoro fatto sul corpo degli attori, il comune denominatore è stato quello di mettere entrambi alle prese con un ruolo inedito. Ad Arcangeli hai tolto esuberanza fisica, a Isabella ne hai aggiunta.

Entrambi hanno fatto un lavoro enorme. Arcangeli è un attore che a me piace molto perché ha una recitazione naturalistica, molto pulita e contenuta. Quando ho fatto il provino con Andrea stava ancora girando Romulus 2, quindi mi sono ritrovata davanti questo re dell’antica Roma, forte, possente, vitale. Bello, atletico. Sprizzava vitalità e salute da tutti i pori. A differenza di Bruno che è un personaggio con una carica vitale molto forte. Tra tutti è quello più aperto verso gli altri, guidato dalla speranza di potercela fare a migliorare le cose. Però questa fame di vita è anche quella che lo consuma, con il suo passato che viene raccontato da questo corpo un po’ tossico. La sorella è l’esatto opposto. Il lavoro fatto insieme a Isabella Ragonese era necessario per farle prendere confidenza con un corpo diverso dal suo: farcela stare dentro equivaleva a farle sentire cosa prova il personaggio. Anche se non è coinvolta in scene particolarmente dinamiche avevo bisogno che avesse anche lei una presenza fisica e un rapporto evidente con il proprio corpo che per lei è anche strumento di sopravvivenza.

Il corpo come “abito”. Indossarlo ti costringe a pensare e ad agire in modo diverso e nel contempo coerente alle nuove fogge di quel vestito.

Era importante che Isabella se lo sentisse addosso e che noi lo vedessimo. Anche per quello le ho fatto indossare jeans molto stretti che mettono in evidenza le sue nuove forme.

Per lei infatti è un ruolo inedito anche sotto il profilo estetico. 

Sì, a cominciare dalla tinta di capelli. Isabella ha un volto molto angelico che abbiamo cercato di modificare anche con delle piccole protesi al naso. In realtà non avevo bisogno di trasformarla per cui si tratta di un cambiamento quasi impercettibile ma capace di indurirne i lineamenti. Mi affascinava renderla unica e ancora credibile agli occhi dei criminali con cui si relaziona. Nonostante sia madrelingua lei è in costante ansia da prestazione e fa di tutto affinché il suo personaggio sia ritenuto veritiero dagli slavi. Dunque il lavoro sul suo fisico era una necessità per più di un motivo.

Isabella Ragonese

In questo hai fatto un’operazione simile a quella di Ludovico Di Martino per La Belva. Come Francesco Gifuni anche Isabella Ragonese proviene da un altro tipo di cinema e anche la sua partecipazione al progetto è andata in direzione di un’attrice capace di dare spessore psicologico al personaggio attraverso la recitazione. Peraltro Isabella è una di quelle interpreti a cui basta un’espressione del volto per riassumere il vissuto di un personaggio. Questo ha sicuramente agevolato la tua volontà di raccontare per sottrazione.

Un vissuto destinato a entrare in questa storia al cento per cento. Sono d’accordo con l’accostamento al film di Ludovico ma un altro modello di cui ho tenuto conto è stato quello di Stefano Accorsi in Veloce con il vento. Avendo partecipato alla realizzazione del film ti posso dire che il lavoro di Matteo Rovere è stato radicale, diventando un punto di riferimento del mio modo di lavorare.

Peraltro il ruolo di Loris per Accorsi è stato quello della svolta e se vogliamo, della cosiddetta maturità artistica, aprendogli una nuova fase di carriera.

Sì, è stato il ruolo del grande ritorno, per certi versi quello che gli ha aperto la possibilità di nuovi ruoli.

Metafore e contrasti

Come pecore in mezzo ai lupi è attraversato da una dialettica tra spirito e materia, tra immanenza e astrazione. Le immagini del film sono piene di scenografie molto materiche, senza considerare che anche la rapina in banca fa riferimento a una visione materiale e laica dell’esistenza. Ciononostante, l’essenzialità degli oggetti presenti in scena unita alla rarefazione dell’elemento umano rimandano a un vuoto non solo spaziale, ma anche interiore.

Mi fa piacere che tu lo abbia notato. Abbiamo fatto una lunga ricerca sui materiali cercando una Roma piena di graniti, di marmi e di travertino che rendono tutto molto materico e molto fisico.

La densità materica fa da contrasto alla desolazione degli spazi, amplificando l’interiorità dei personaggi. Anche il contrasto tra il mondo criminale e la presenza di una forte religiosità è un altro aspetto di questa dialettica.

Sì, c’è questa spiritualità molto pesante che incombe sui personaggi. Per questo motivo mi sono divertita a inserire la Basilica nella sequenza dell’assalto finale. È stato il modo per far sentire una mia piccola critica a un certo modo di vivere la religione. Al di là di questo mi riconosco molto in questa tua analisi perché credo che ogni singolo segno presente all’interno del frame debba avere un senso. Non sempre si riesce a controllare tutto, però è importante che le cose dialoghino andando a costruire questo vissuto. La corrispondenza tra forma e senso per me è una ricerca costante: tanto nei colori quanto nella scelta dei materiali e delle location. C’è sempre la volontà di far dialogare queste due linee.

La religione

Il cinema noir meglio di altre forme cinematografiche ha il pregio di cogliere aspetti essenziali del nostro tempo. In questo caso mettendo in relazione Stefania con il cattivo di turno attraverso la comunanza di riferimenti religiosi. In credito con la vita e con Dio tu racconti come di fronte ai problemi dell’esistenza si possa reagire in maniera diversa: uno uccide mentre l’altra cerca di andare verso l’amore, seppur con poca fortuna.

Uno sente di aver già perso tutto e quindi vuole solo prendere con la forza. Stefania si trova in una posizione di mezzo perché non è né una cosa né l’altra. Ha il desiderio dell’altro, ma è incapace di avere rapporti perché è cresciuta chiudendosi e cercando sicurezze nella vita professionale e nella dinamicità dell’azione. Anche se poi internamente è ancora immatura. È rimasta una bambina. È l’incontro con il fratello, seppure in questa maniera drammatica, a farla riaprire verso l’altro.

Infatti una costante presente in tutto il film è il tema della famiglia, ovvero della sua mancanza che, come nei film di Clint Eastwood, i protagonisti ricercano, nel tentativo di compensare fuori tempo massimo qualcosa che non hanno mai avuto. In questo senso l’ultima scena chiude il cerchio rispetto al bisogno di Stefania.

È l’unica maniera in cui poteva arrivare: dall’altro. In un certo senso ogni personaggio incarna e restituisce degli aspetti che sono presenti nella protagonista, funzionando così da specchio. Il paragone con il fratello è fondamentale. Se Stefania è più risolta dal punto di vista professionale, Bruno è quello più centrato internamente. Stefania negli affetti annaspa. Alla fine quella che lei apprende è la lezione del fratello.

Si parlava della capacità del segno di produrre senso. In questo senso la scenografia della scena finale, ambientata in una sorta di pascolo riprende il significato del titolo, cristallizzando la condizione della protagonista e di quella della sua piccola compagna di viaggio. Innocenti destinate a muoversi in un mondo di lupi. Inoltre dal punto di vista narrativo il sorriso finale riprende quello della scena iniziale, suggellando il viaggio esistenziale compiuto dalla protagonista.

Nel finale ho fatto confluire diverse necessità. Innanzitutto quella di aprire gli orizzonti del racconto allo stesso modo in cui si apre la protagonista. In questo senso la natura mi permetteva di staccarmi dall’ambientazione metropolitana. Poi mi piaceva la necessità molto terrena della bambina la cui fame segna un po’ un ritorno all’essenza delle cose e della vita. E quindi sì, c’è questa chiusura del cerchio.

La fotografia nel film di Lyda Patitucci

Con Giuseppe Maio avete scelto in maniera coerente una fotografia desaturata in cui sono i grigi e i neri a dominare salvo rare eccezioni, come il rosso che precede l’amplesso amoroso con cui Stefania si stordisce per non pensare ai suoi guai.

O come il fucsia degli scarponcini della bambina. Con Giuseppe abbiamo fatto insieme diversi lavori come seconda unità, quindi avevamo un’esperienza tecnica per la scene d’azione molto consolidata, il che torna utile in film in cui hai poco tempo per realizzarli. In più questa è stata l’occasione per esprimerci di più. Giuseppe è un inquieto sperimentatore e come me prende delle scelte nette. Entrambi non volevamo dei compromessi. Io volevo una fotografia algida, fredda, quasi monocromatica, e su questo lui ha spinto l’acceleratore. Centrale è stato il lavoro fatto sulle superfici riflettenti perché volevamo lavorare sulle varie immagini che lei dà di sé stessa e che specchi e vetri riportano con puntualità. A volte mettevamo filtri e barriere sempre per questo continuo lavoro sull’identità celata e trasformata.

Anche perché il tema del doppio ti serve per affrontare la nevrosi del personaggio, la cui identità è scissa tra pubblico e privato.

Esatto. E anche qui ho fatto riferimento a uno dei grandi cliché del genere che non rinnego e che anzi cavalco raccontando un infiltrato la cui vita privata rischia di essere rovinata da quella professionale. In questo caso succede la cosa opposta, con la prima che rischia di compromettere la seconda, che per lei è quella più vera e reale.

La costruzione del personaggio

Diciamo qualcosa sul processo di costruzione del personaggio e più in generale del lavoro con Isabella.

Abbiamo avuto modo di lavorarci a lungo attraverso la sceneggiatura. Dapprima mi sono confrontata con il suo autore, Filippo Gravino, poi con Isabella, leggendola più volte e cambiando quello che non ci tornava. Ci siamo trovate allineate fin da subito condividendo come donne della stessa età le problematiche delle nostre rispettive carriere. Abbiamo sentito come una grande occasione quello di lavorare su un personaggio femminile ermetico e allo stesso tempo molto chiaro. Ho provato tutte le scene con gli attori, e quelle d’azione le abbiamo prima coreografate, consolidando la dinamica, per essere liberi poi di lavorare sulla recitazione. Isabella doveva affrontare anche la sfida della lingua serba, con cui si esprime nelle scene dove si confronta con l’organizzazione criminale. Quindi per lei è stata una preparazione complessa perché oltre al personaggio ha dovuto lavorare sul fisico e sulla lingua. Questo alla fine si è rivelato un vantaggio perché quando lavori in maniera così immersiva è impossibile non calarsi anima e corpo nel personaggio. Mi sento di ringraziarla per la fiducia accordatami perché in fondo ero al mio primo film da regista.

Direi che ha fatto bene a fidarsi perché la sua risulta una grande prova d’attrice che la conferma tra le nostre più brave interpreti.

Sono d’accordo perché anche per me è una grande attrice.

Il cinema di Lyda Patitucci

Parliamo del tuo cinema di riferimento.

Sono cresciuta con i film degli anni novanta. Scorsese Friedkin, De Palma, Cronemberg sono stati dei modelli. Poi sono venuti Tarantino e Rodriguez. Per quello che poi ho deciso di fare il faro è stata la Bigelow perché lei è stata un’assoluta eccezione. In più amo molto i film horror e il western, quindi Bava, Fulci, Argento, senza dimenticare Sollima e Refn.

Come pecore in mezzo ai lupi

  • Anno: 2023
  • Durata: 99'
  • Distribuzione: Fandango
  • Genere: drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Lyda Patitucci
  • Data di uscita: 13-July-2023