Anniversari
60 anni e non li dimostrano
Quattro film da rivedere o riscoprire girati nel 1963
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1 anno agoon
Non importa se gli adolescenti dei giorni nostri storcono il naso quando sentono parlare di film in bianco e nero. Chi appartiene alla mia generazione è cresciuto con quelle pellicole dal grigio appena contrastato, con trame spesso graciline e senza grande respiro. Era però il periodo in cui si producevano in Italia centinaia di film l’anno, quando primeggiava il genio insuperabile di Totò, ci si interrogava sul disagio esistenziale proposto da Antonioni e si celebravano i fasti de La dolce vita di Fellini. Molte di quelle pellicole prodotte allora appaiono ingiallite e hanno perso smalto e carica visiva; altre, invece, a distanza di sessant’anni, sembrano ancora fresche e a passo col tempo. Ne ho scelte quattro che, secondo me, al di là dei pregi estetici, più di altre, hanno segnato un’epoca.
Una storia moderna – L’ape regina
In Una storia moderna – l’ape regina di Marco Ferreri, Alfonso (Ugo Tognazzi), venditore d’automobili quarantenne, decide di prendere moglie e, su suggerimento di padre Mariano (Walter Giller), vecchio amico, ora frate domenicano, sposa Regina (Marina Vlady), una ragazza religiosissima e illibata. Regina, dapprima timida e pudica, con il matrimonio si trasforma in una donna appassionata che chiede ad Alfonso, sempre con maggiore insistenza, di fare l’amore con lui. Lui è dapprima sorpreso, poi la sfrontatezza di Regina finisce per intrigarlo e stuzzicarlo. Il bambino che lei desidera però tarda a venire e le sue continue richieste finiscono per fiaccare fisicamente Alfonso. Regina è incinta ed è sempre più luminosa e raggiante; al contrario Alfonso deperisce sempre più e per riprendersi fisicamente fa ritorno al paesello dove è nato, accudito dai familiari. Regina partorisce e Alfonso, dopo qualche tempo, sempre più senza forze, muore.
Sceneggiato da Rafael Azcona, su un soggetto di Goffredo Parise, il film all’uscita scatenò le proteste dei bigotti e dei benpensanti dell’epoca per la dissacrante rappresentazione di una donna che, invece di abbracciare l’idea di essere un ubbidiente angelo del focolare, si sposa soltanto per mettere al mondo un figlio. Questa sulfurea e grottesca rappresentazione del matrimonio non poteva non scatenare la scure della censura. Il film, infatti, fu ritirato, tagliato e rimesso in circolazione con il nuovo titolo Una storia moderna – L’ape regina. Come lo stesso regista milanese commentò:
“L’ape regina è una donna che con dolcezza implacabile ammazza il marito, vittima consenziente, a forza di fargli fare l’amore, perché per lei il fine del matrimonio non è il godimento dei rapporti con il marito, ma la procreazione. Così, quando è finalmente incinta, del marito non ha più bisogno, e intanto lui crepa di consunzione. Il film è stato bloccato dalla censura per otto mesi per via di un’inquadratura in cui c’era una camicia da notte lunga fino ai piedi, con un buco attorno al quale era ricamata questa massima: ”Non lo fo per piacer mio ma per far piacere a Dio”
Tognazzi è perfetto nel ruolo del fidanzato innamorato che rispetta la scelta di castità della futura moglie e in quello del marito che, passivamente, soggiace, da sposati, alle sue “voglie”. Grazie alla sua interpretazione, Tognazzi fu premiato con il Nastro d’Argento e mise alle spalle la maschera di attore comico che incarnava per lo più personaggi estremamente popolari, in film divertenti, di facile presa sul pubblico. Vlady, enigmatica, come non mai, è premiata a Cannes come migliore attrice protagonista, insuperabile nel ruolo della moglie gelida e calcolatrice.
I mostri
Ancora più noto del precedente è I mostri di Dino Risi, film a episodi, da soggetto e sceneggiatura di Age, Scarpelli, Elio Petri, Dino Risi, Ettore Scola e Ruggero Maccari, che regge su due dei mattatori principi di quegli anni: Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. In questa sulfurea commedia, Risi graffia come non mai e impagina venti episodi, girati tutti in piano sequenza, con i quali compone dei ritratti al vetriolo sugli inveterati vizi italici. Tra i più indovinati, il primo episodio: L’educazione sentimentale. Fedele al detto “Bisogna farsi furbi nella vita”, un padre (Tognazzi) insegna al figlio Paoletto (Ricky Tognazzi) come essere disonesto e fregare il prossimo. Al bar consuma sei paste e ne paga solo due e, approfittando che non c’è il vigile, imbocca con l’auto un senso vietato e suggerisce poi a Paoletto di fare le corna all’automobilista che, giustamente, lo rimbrotta. Insegna poi al figlio a non rispettare le code, a non dividere la merenda con i compagni di classe e a picchiarli. Dieci anni dopo, la prima pagina di un quotidiano riporta che Paoletto ha ucciso il padre per rubargli i soldi.
Gustoso anche quello intitolato Come un padre. Luchino (Lando Buzzanca) si reca a casa di Stefano (Tognazzi), suo migliore amico, e gli confida che la moglie Luciana (Rosemary Dexter) con la quale è sposato da tre mesi, lo tradisce. Stefano lo convince che le sue sono paure immotivate e lo congeda. Un attimo dopo, si scopre che Luciana è l’amante di Stefano. Da segnalare anche L’oppio dei popoli. Un marito (Tognazzi), è talmente preso a guardare la televisione in salotto, che la moglie (Michèle Mercier) riceve l’amante (Marino Masé) in camera da letto. Non paga, chiede all’amante di prenderle del whisky in salotto dove il marito si sta godendo l’ultimo programma in onda. Poetico l’ultimo episodio che chiude il film, La nobile arte. Enea Guarnacci (Tognazzi), manager di pugilato ormai fuori dal grande giro, convince Artemio Altidori (Gassman), suo vecchio pupillo, ex campione italiano dei pesi massimi, ormai bollito, a tornare sul ring. Dopo essere andato ko dopo il primo round, il boxeur, ormai regredito come un bambino, resta inchiodato su una sedia a rotelle. Notevole la colonna sonora di questo film con le hit di quegli anni: Abbronzatissima di Eduardo Vianello, Il mondo di Suzie Wong di Nico Fidenco, Sassi di Gino Paoli, Cosa vuoi da me di Michele, I tuoi capricci di Neil Sedaka, Io che ho amato solo te di Sergio Endrigo.
La noia
Altre atmosfere si respirano, invece, ne La noia di Damiano Damiani. Dino (Horst Buchholz) giovane pittore romano, figlio di una donna ricchissima e asfissiante (Bette Davis), è in piena crisi creativa. La madre, per scuoterlo dal torpore e tenerlo con sé, prova a spingere (invano) tra le sue braccia Rita (Daniela Rocca), una cameriera assunta allo scopo di sedurlo. Balestrieri (Leonida Rapaci), un anziano pittore che ha lo studio di fronte a quello di Dino, muore tra le braccia di Cecilia (Catherine Spaak), una modella diciassettenne, che posava per lui. Colpito dalla freschezza, dalla spregiudicatezza e dall’esuberanza della ragazza, Dino inizia a frequentarla, ci va a letto e se ne innamora. Ma lei ha una relazione con Luciano (Luigi Giuliani), un uomo sposato, perennemente in bolletta, che lei aiuta economicamente. Dino è geloso, prova in tutti i modi a legarla a sé, le chiede, perfino, di sposarlo, ma lei, spirito libero, rifiuta la sua proposta e parte con Luciano per Capri. Deluso, Dino tenta il suicidio. Cecilia ritorna dalla vacanza e gli confessa che Luciano l’aveva picchiata, dopo aver scoperto che lei l’aveva tradita con un ospite dell’albergo. Dino l’ascolta con distacco e con la mente ha già preso le distanze da lei.
Damiani trasporta sullo schermo il romanzo di Alberto Moravia e apre il film mostrando Dino che, svuotato e insoddisfatto, stanco ormai di dipingere, con una piccola accetta, squarcia dapprima una tela vuota, posta su un cavalletto, e poi alcuni dei suoi dipinti esposti su una parete. Il suo gironzolare intorno a Cecilia non è dettato da una vera passione, ma dalla curiosità di scoprire da dove lei attinge quell’irresistibile vitalità. A rinforzare la sua noia e la sua assenza di desideri, le note in sottofondo di “Che m’importa del mondo” cantata da Rita Pavone. Il film fece scalpore per una scena: per convincere Cecilia a non partire per Capri, Dino le ricopre il corpo nudo di banconote da diecimila lire. Catherine Spaak, freschissima, é di una spontaneità travolgente. Bette Davis immensa, come sempre.
Il disprezzo
A chiudere il cerchio Il disprezzo (Le meprìs). Pellicola a colori, co-prodotta con la Francia e diretta da Jean Luc Godard. Paul Javal (Michel Piccoli), scrittore di romanzi polizieschi, è chiamato a Roma, a Cinecittà, da Prokosch (Jack Palance), un produttore americano, per scrivere nuove scene più commerciali per il film sull’Odissea diretto dal celebre Fritz Lang (nella parte di se stesso), ritenuto un regista troppo autoriale. Prokosch non disdegna di fare la corte a Emilia (Brigitte Bardot), la giovane moglie di Javal, che non solo non è geloso, ma addirittura la spinge tra le sue braccia. Emilia inizia a pensare che il marito, vigliaccamente, possa trarre dei vantaggi dal corteggiamento del produttore e inizia a disprezzarlo. La coppia è invitata a seguire il produttore nella sua magnifica villa a Capri e, dopo un ennesimo confronto, lei gli rivela che non l’ama più. Javal allora cerca di riconquistare la moglie e le rivela che abbandonerà il progetto del film e riprenderà a scrivere per il teatro. Ma ormai è troppo tardi ed Emilia lascia l’isola con il produttore. Ma….
Godard dirige un “film nel film” e per la prima volta non utilizza una sceneggiatura originale, ma traspone liberamente l’omonimo romanzo di Alberto Moravia. Il film ruota sullo sfaldamento di una coppia, che dall’amore passa al disprezzo, ma può essere inteso anche (e soprattutto) come una metafora pessimistica sul destino del cinema finito in mano a produttori senza scrupoli che puntano solo al successo commerciale. Il regista parigino inserisce alcuni dialoghi tratti dalla sua relazione con l’attrice Anna Karina e impone alla Bardot in diverse scene una parrucca di color nero che rimanda alla pettinatura della Karina, sua compagna del tempo.
La lavorazione fu funestata da continui litigi tra Godard e i produttori, dall’atteggiamento di Jack Palance, spesso ubriaco, dalla scelta della Bardot di comunicare con Godard solo con intermediari e dalla confusione sul set dove Bardot e Piccoli parlavano in francese e Palance in inglese. Infine, Godard per i ruoli dei protagonisti avrebbe puntato su Kim Novak e Frank Sinatra e Ponti sulla Loren e Mastroianni. Nella versione italiana Ponti vampirizzò letteralmente il film e lo fece accorciare di circa venti minuti, cambiò dei dialoghi, trasformando la presa diretta in doppiaggio (nell’originale ogni attore parlava nella propria lingua), fece rimontare intere sequenze, sostituì la musica di Georges Delerue con quella di Piero Piccioni e lo fece stampare con dei colori diversi. Non pago, insoddisfatto perché Godard non aveva sfruttato la Bardot in chiave sexy, decise di non inviare il film alla Mostra del Cinema di Venezia e impose al regista di girare delle scene di nudo con l’attrice francese che poi furono tagliate. Godard alla fine, dopo mille polemiche, disconobbe la versione italiana.
Il film fu girato nella villa di Curzio Malaparte a Capri. Godard cita Viaggio in Italia di Roberto Rossellini e lascia molto spazio alle bellezze naturalistiche dell’isola. Cameo dello stesso Godard nei panni dell’aiuto regista.
Quattro pellicole di cui due hanno avuto un modesto sequel: I nuovi mostri (1977) , per la regia di Ettore Scola, Mario Monicelli, Dino Risi e La noia (1998), diretto da Cédric Khan, che non hanno eguagliato l’originale. Quattro film con magnetiche colonne sonore, con scene girate magistralmente e dal grande impatto emotivo, entrate a far parte di diritto nella storia del cinema italiano.