Rossosperanza è un film diretto da Annarita Zambrano (autrice al suo secondo lungometraggio) e in concorso alla 76° edizione del Locarno Film Festival. Il film tratta della labilità di uno dei concetti più importanti nella contemporaneità (ma non solo) ossia la morale e l’attrito che si crea nel momento in cui questa si scontra con un suo possibile crollo.
La vicenda, ambientata negli anni Novanta, ci viene inizialmente proposta tramite gli occhi di uno dei personaggi principali, ossia la giovane Zena, la quale ci introduce nel luogo di snodo della storia: una lussuosa villa per “ragazzi difficili”. Questo particolare spazio dovrebbe essere una sorta di centro di recupero per adolescenti e giovani adulti che hanno commesso atti dalla dubbia correttezza (una “correttezza” che in tale contesto ha del fragile), ma ci verrà in realtà presentato come un luogo angusto, dove le complicazioni psicologiche dei ragazzi non fanno altro che esacerbarsi.
Nonostante sia la storia di Zena ad avere la priorità nella narrazione, il film potrebbe descriversi come corale: il senso del lungometraggio si deduce, infatti, dall’intersecarsi delle storie personali degli altri ospiti della villa. È presente una certa accuratezza nella descrizione delle storie passate e personali degli adolescenti a cui Zena si lega ossia Marzia, Alfonso e Adriano. La coralità è dunque uno dei punti di forza del film.
Le freudiane “fioche facoltà mentali dell’adulto medio”: la responsabilità familiare
La ribellione adolescenziale e il contrasto con la generazione antecedente alla propria sono temi toccati piuttosto spesso da testi e prodotti di diversa natura (il cinema degli anni Sessanta ce lo ha mostrato ottimamente). Ciò avviene solitamente mediante la costruzione approfondita dei profili psicologici di ambedue le parti. Ma in Rossosperanza, pur potendo effettivamente constatare la gravità degli atti compiuti dai nostri protagonisti (violenti e capaci addirittura di uccidere), gli adulti vengono dipinti come figure assolutamente problematiche. Tra l’altro, non è corretto parlare di semplice “ribellione”: il termine più appropriato per descrivere gli atti dei protagonisti è vendetta.
In questo film è difficile trovare una figura genitoriale o adulta in generale che non abbia sregolatezze, vizi o mancanze di diverso tipo; mancanze che oscillano e si mescolano tra loro. Gli adulti si propongono così come colpevoli più dei loro figli (anche quando sono loro le vittime dirette degli atti violenti). I comportamenti messi in atto da questi adulti sono il prodotto dell’appartenenza a quella parte di collettività considerabile agiata ma soprattutto socialmente importante (nei primi minuti, per esempio, si rende noto il legame di una delle famiglie con l’ambiente papale).
Ogni singolo adolescente di questa storia ha un rapporto complesso con la propria figura adulta di riferimento: tale complessità può riguardare l’aderenza a una vecchia idea di virilità, l’attaccamento ossessivo alla religione, la non accettazione di una sessualità diversa dal “normale”, posizioni politiche problematiche e varie altre questioni di simil-natura (non separate l’una dall’altra, ma tra loro legate come frammenti di un’unica catena). La fragilità adolescenziale è dunque conseguenza della mancanza e della superficialità adulta. La vendetta dolceamara, attuata da tutti e quattro gli elementi del “coro” filmico, è la fine (o l’inizio?) di un’orda di violenza psicologica che si è sviluppata in primis dal germe familiare e infantile.

Il percorso simbolico di Rossosperanza
La narrazione del film, oltre a costruirsi sulla già citata coralità e sul susseguirsi di flashback (il film presenta infatti un continuo slittamento tra passato e presente), si sviluppa su una serie di elementi simbolici molto interessanti. Sono infatti presenti vari attimi, oggetti e animali che si propongono come veicoli di significati più profondi rispetto a quelli offerti dalla narrazione. Tra i più importanti e ricorrenti, sicuramente il colore rosso (probabilmente raffigurante il colore del sangue versato) e una tigre assassina che si aggira per i luoghi che circondano i personaggi…
Vi è un’attenzione generale ai dettagli che arricchiscono le inquadrature, contribuendo così alla creazione di un ricco contesto visivo e narrativo: guardando il film con scrupolosità, infatti, si potranno cogliere delle sfumature che permettono di costruire approfonditamente il quadro familiare nel quale i personaggi del lungometraggio sono cresciuti. Vi sono soprattutto una serie di riferimenti alla religione e all’appartenenza politica che non passano affatto inosservati e che sono molto importanti affinché si capisca pienamente ciò che Rossosperanza vuole problematizzare: la fragilità delle credenze morali e dell’appartenenza a un certo ceto sociale.
Al Locarno Film Festival e da oggi in sala, Rossosperanza firmato Annarita Zambrano: un film dove il sangue versato per vendetta è il fil rouge dell’empatia spettatoriale.
