Il fascinoso interprete di Mare fuori si racconta. I dubbi, i successi, le scelte e il percorso personale e attoriale di un attore sorprendente.
Tu hai iniziato con una scuola teatrale diretta da un attore notevolissimo, Gianfelice Imparato, che ha lavorato con Eduardo De Filippo. Cosa ti ha spinto lì e che esperienza è stata?
Prima di iscrivermi a quella scuola, andavo all’oratorio della Chiesa del Carmine a Castellammare di Stabia e, alla fine dell’anno, si facevano sempre degli spettacoli, dove io mi divertivo molto. Erano, per me, i momenti più spensierati, in cui, magari, non pensavo all’interrogazione del giorno dopo, all’angoscia che mi mettevano certe dinamiche della quotidianità. Succede che vengo a sapere che c’è questo attore fortissimo, che io non conoscevo, ma era della mia città e un amico di papà. Gianfelice Imparato in quel periodo stava aprendo una scuola di recitazione per il cinema, a Castellammare. Mi ricordo che andai a iscrivermi prima che aprisse, quando ancora stavano facendo i lavori, perché avevo paura che i posti finissero. E poi da lì è iniziato tutto. Gianfelice Imparato mi ha trasmesso cose fondamentali, anche se con lui direttamente ho avuto la possibilità di studiare pochissimo, sei mesi, perché poi prese in consegna la compagnia di Luca De Filippo. La cosa più importante che mi ha lasciato è stata l’etica nei confronti di questo lavoro, senza perdere l’aspetto ludico, soprattutto portare rispetto a chi ha scritto qualcosa, a chi lavora a un testo.
E poi qual è stata la tua strada?
Gianfelice Imparato mi ha motivato, mi ha fatto capire che avevo le potenzialità, gli strumenti per potermi addentrare in questo campo. Mi ha detto di andare a Roma, provare delle scuole, dove poi ho studiato. Sono seguiti due cortometraggi, un ruolo in Furore per la televisione e, nel 2019, il casting per Mare fuori, in cui Carmine Di Salvo ha scelto me e io lui. Prima è stata dura, però: per un anno, due, ho fatto tantissimi provini, alcuni dei quali andavano anche bene, qualcuno faceva qualche promessa, ma, poi, alla fine, non succedeva niente. Mi arrivò anche un po’ d’ansia, cominciavo a non poterne più. All’epoca facevo il fattorino a Roma, portavo le pizze, e pensai di andare a fare la stessa cosa a Londra, magari studiando lì recitazione. Ma arrivano i provini di Mare fuori: primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto, settimo, inizio a crederci, mi telefonano e mi dicono: «Mi dispiace, ma per diciotto settimane sarai impegnato sul set». Da lì, tutto inizia a cambiare.
Com’è nato l’interesse per il ruolo di Ciro in Piano piano di Nicola Prosatore?
Ho insistito per fare questo film perché Ciro sembra il cattivo della storia, però c’erano degli spazi con all’interno la possibilità di raccontare le sue vulnerabilità. Io non amo le etichette, il buono, il cattivo, e ho visto margini per cesellare un personaggio con il quale si poteva empatizzare. Ho visto il ruolo come un’occasione, oltre a fatto che adoravo l’idea di lavorare con Lello Arena e Antonia Truppo, attori che, per me napoletano, sono delle istituzioni.
Per il film Piano piano, che cosa ti ha chiesto in particolare Nicola Prosatore per il tuo personaggio?
Ricordo benissimo l’ultimo provino per il ruolo. Ciro è un personaggio a tratti esplosivo. Sulla sceneggiatura c’era scritto: «Sorride», da lì ho costruito tutta una cosa, finisco il provino. Nicola Prosatore si alza e la prima cosa che mi dice è: «Bellissimo, però un po’ meno Joker». La chiave di lettura, che mi ha fatto ottenere la parte, è che il personaggio fosse un po’ vittima di questo cortile, dell’oppressione dell’ambiente e di quegli anni là. Il lavoro che abbiamo fatto insieme è stato quello di riportarlo alla Napoli degli anni ‘80: questa è stata la prima indicazione. Io gli ho costruito tutto un lato che definirei psichedelico, però doveva essere innanzitutto un ragazzo di quel preciso periodo storico.
Piano piano
E sul set invece?
Sul set è stato uno scambio. Nicola Prosatore è un regista che sa quello che vuole, soprattutto per questo progetto, sul quale ha lavorato ben sei anni. Aveva le idee molto chiare e il nostro è stato un lavoro di confronto battuta su battuta. È qualcosa che ho imparato a fare con lui, perché sulla serialità di Mare fuori si hanno altri tempi, altre esigenze, non sempre c’è la possibilità di andare a costruire una scena battuta per battuta. Con Nicola Prosatore è stato come abbia fatto un Master in quelle sei settimane. Poi sentivi anche la responsabilità di raccontare la storia che veniva direttamente da Antonia Truppo, lì sul set con noi e cosceneggiatrice.
Carmine di Mare fuori è un personaggio molto popolare di una serie di enorme successo. Percepisci mai il pericolo che questo ruolo possa, in qualche modo, ingabbiarti?
Sì, è la paura nella quale si rischia di cadere quando capita un successo del genere. Però è qualcosa che, paradossalmente, sentivo più prima che adesso. È stata proprio l’uscita di Piano piano che mi ha permesso di prendere atto del fatto che il pubblico, secondo me, sta cambiando, si abitua più facilmente a un ruolo diverso di un attore, tende a non etichettare più. La gente che veniva al cinema per vedere Carmine di Mare fuori, si rendeva conto che quello era un altro personaggio, ma restava l’attore. E poi mi piace confidare, anche perché se non lo faccio sono perso, in un certo tipo di studio e di approccio a questo lavoro: l’idea di iniziare da zero, di una tela bianca a ogni nuovo personaggio, l’idea, anche, di confrontarmi con persone che ne sanno molto più di me, è una cosa che mi fa sentire protetto. Poi succede, sicuramente, che per tanti rimango sempre il Carmine di Mare fuori. È anche giusto che sia così, noi attori lo sappiamo e lo accettiamo.
Mare fuori
Cosa ti spaventa del successo?
Avere poco spazio per me, nel senso che il successo ti rende riconoscibile e non sempre riesci a ritagliarti spazi di intimità. Questo mi spaventa, non tanto sul breve quanto sul lungo periodo, perché, magari, è proprio in quegli spazi d’intimità che uno si ricarica.
Quali sono i tuoi modelli attoriali?
Luca Marinelli e Gian Maria Volontè sono i primi che mi vengono in mente. Mi piacciono quegli attori che fanno un certo tipo di ricerca, mi affascinano molto. Quando ero piccolo, erano quei personaggi che mi facevano venir voglia di essere come loro.
Mare fuori affronta un tema importante, la vita in un carcere minorile. Che idea ti sei fatto di quel mondo?
Parlando sia con i ragazzi che sono stati dentro sia con educatori che sono lì, tutti puntano all’obiettivo del reinserimento nella società. Ovviamente, non tutti ci riescono, per i motivi più disparati. Io mi sentirei di dire questo, che poi è il messaggio che cerchiamo di dare con la serie: se riusciamo con almeno uno di loro, abbiamo vinto. Questi ragazzi hanno enormi difficoltà a trovare un lavoro dopo. Vuoi perché sono stati lì dentro e chi è fuori parte prevenuto, vuoi perché loro stessi non vogliono, vuoi perché si sentono in difetto, hanno vergogna, ci sono tantissimi livelli di motivazioni. Il lavoro che fanno gli educatori è proprio su questo. E, dove ci sono delle difficoltà, si mettono a disposizione, esistono delle realtà per facilitare questo processo. Ho parlavo con alcuni di questi ragazzi, dopo l’uscita della prima serie, alcuni dei quali hanno trovato lavoro, proprio grazie a dei laboratori fatti in carcere, in delle pizzerie di New York e Chicago.
Mare fuori
Volevo proprio sapere, infatti, se prima di girare la serie vi eravate confrontati con chi quella realtà la viveva o l’aveva vissuta.
Sì, abbiamo avuto la possibilità, a prima stagione in corso, di conoscere alcuni ragazzi del carcere di Nisida. Abbiamo fatto un paio d’ore di laboratorio teatrale con loro e poi abbiamo visto una partita del Napoli insieme. È stata un’esperienza molto forte.
Che cos’è per te la recitazione? Il suo valore è cambiato da quando hai iniziato?
Nasce come un gioco. È cambiato perché è diventato un gioco molto serio, però resta tale. Credo sia anche qualcosa che mi ha aiutato a trovare un certo tipo d’identità. Se torno ai miei 13/14 anni, ricordo un’inquietudine di base, dovuta al fatto che non riuscivi a collocarti, anche all’interno di gruppi di amici, magari ti sentivi sempre un po’ un pesce fuor d’acqua. La scoperta di questo mondo mi ha tirato fuori da questa sensazione. E poi è diventata una scelta di vita, una scelta che ha cambiato tutto, dalla fidanzata dell’epoca all’università. Resta una costante: lo studio.
Qui allo ShorTS International Film Festival siamo in un festival di cortometraggi. Qual è il tuo rapporto come attore e spettatore con questa forma cinematografica?
Mi piacciono i corti. Io stesso ho recitato in due. Secondo me è un buon banco di prova, sia per i registi sia per gli attori. Non sempre hai la possibilità di avere tanto tempo, anche come spettatore, quindi, quando mi capita, li guardo con piacere. E poi, all’interno dei corti, vedi la crescita di un regista.
Filumena Marturano
Cosa cerchi in un personaggio per scegliere d’interpretarlo?
Sicuramente degli spaccati di vita, dove poter raccontare un certo tipo di individualità, d’intimità. Per esempio, il film di Nicola Prosatore era bello perché si respirava profondità nel testo. Personaggi che, nell’arco della storia, toccano il fondo per poi risalire, ti danno la possibilità, come attore, di passare realmente dal punto A al punto Z, cogliere un’intera parabola esistenziale e, quindi, recitativa. Pure il ruolo che ho fatto in Filumena Marturano, anche se per qualcuno è un personaggio piccolo, è un carattere di questo tipo: uno che inizia in un modo e, alla fine dell’arco narrativo, è totalmente capovolto. Anche per questo, mi piacerebbe fare personaggi dove devi cambiare completamente fisicamente. E non parlo solo di ingrassarmi, cambiare del tutto look, ma penso pure a menomazioni fisiche o disturbi mentali. Sfide che mi permettano di viaggiare all’interno di realtà che non conosco o che vedo sempre soltanto da lontano.
Com’è stato girare per la televisione un grande classico come Filumena Marturano?
È un film di Francesco Amato, in cui sono uno dei tre figli che Filumena Marturano svela a Domenico Soriano. Filumena Marturano è Vanessa Scalera, Domenico Soriano è Massimiliano Gallo. Anche su questo film si può fare una riflessione. Io sentivo molto scetticismo attorno all’idea di fare classici in televisione, quasi come fossero qualcosa d’intoccabile, quindi per questo da non riproporre, quando, invece, secondo me, è un periodo storico in cui spesso sembra manchino un po’ i contenuti, quindi, ritornare un passo indietro ai classici, forse ci può aiutare, riesplorandoli. Poi, quando ho avuto questa parte, sembrava più felice mio papà di me. Lui, quando ha saputo del provino, mi ha detto: «Tu lo devi fare anche gratis!». Pensa che noi a casa abbiamo la collezione delle videocassette di tutte le commedie di Eduardo… quindi c’è stato questo tipo di formazione paterna su Eduardo, su Scarpetta, su Massimo Troisi. Girare Filumena Marturano è stato bello sotto tanti punti di vista. In primis, mi sono reso conto di quanto un vestito cambi il modo di muoverti: se ho i gemelli, prenderò un bicchiere in un certo modo. Se ho il pantalone a vita alta, starò seduto diversamente rispetto ai jeans. Se ho la cravatta stretta, ovviamente mi condizionerà nei movimenti. Quindi, il vestito diventa realmente parte del personaggio. Nel 1950, poi, c’era tutta un’altra umanità.
Interpretando personaggi come Carmine, sei adorato da schiere di fan. Senti, in qualche modo, una responsabilità, quando vai sul set a fare ruoli del genere, di essere un modello?
Ogni tanto mi sta capitando di sentire un po’ di più la paura del giudizio, da questo punto di vista. Poi provo a liberarmene. A volte mi faccio questi discorsi sulla responsabilità, perché è un mestiere che deve anche assumersi un certo tipo di responsabilità. Prima ti ho citato Gian Maria Volonté, che ha fatto della responsabilità sociale quasi una firma, nelle sue scelte. Quindi è giusto che ci sia, ma non deve diventare forviante per esprimere i tuoi punti di vista, perché è vero che Gian Maria Volonté sentiva forte la responsabilità sociale del suo lavoro, ma questa diventava una spinta che ampliava la sua energia, non lo limitava, al contrario. Ci sono stati dei momenti, magari nel processo prima di andare sul set, in cui prendevo delle cose del personaggio sul personale, fa parte della mia ossessività, e ho iniziato a rendermi conto che stavo giudicando il ruolo come se fossi io.
Massimiliano Caiazzo sul palco dello ShorTS International Film Festival con il direttore Maurizio di Rienzo
Tu hai girato una serie che parla di disagio giovanile, dove per soldi si è disposti a fare qualunque cosa. Che idea ti sei fatto di questi ragazzi giovanissimi su Youtube o TikTok con sfide molto pericolose?
Oggi si vuol guadagnare su tutto, oltre che apparire. Sembra che le visualizzazioni siano le nuove banconote. Però questo non c’entra niente con il raccontare una storia. E, soprattutto, non c’entra niente con l’arte.
Tornando a Gian Maria Volonté, lui diceva che l’attore dava al personaggio un contributo linguistico, cioè qualcosa in più rispetto a quello che era scritto. Che cosa pensi di aver dato ai ruoli che hai interpretato?
Mi piacerebbe avere una firma stilistica come attore. E spero che, in futuro, questa mia firma sia sempre più percepibile. Il fascino del recitare è dare corpo a un personaggio che è solo scritto. Tu lo esplori, fai una ricerca, sia fisica che emotiva, e poi devi fare delle scelte che definiscono il tuo lavoro. Quindi, dare un certo tipo di fisicità a Carmine, che cambia anche nel corso delle tre stagioni. Poi, dare delle sfumature di dipendenza al personaggio di Ciro, delle piccole cose che stanno dietro la sua storia, magari non è detto che vengano raccontate, ma danno quel colore in più alla sua vicenda, arricchiscono il personaggio, gli danno un peso.
Carmine Di Salvo, cos’è stato, cos’è adesso?
È sicuramente un personaggio con il quale sto crescendo. Ho avuto la possibilità di creare un personaggio a 360 gradi, costruire un arco che, nel caso della serialità, è anche molto lungo. Io e Carmine siamo un po’ cresciuti insieme ed è diventato anche uno spazio per farmi delle domande, dal punto di vista sia umano che artistico. Inevitabilmente, si genera un confronto, che è, in primis, con te stesso e poi con i tuoi colleghi, gli sceneggiatori, il regista. È un percorso che sta continuando con la quarta serie che stiamo girando.
Cos’altro hai fatto nel frattempo?
Qualcosa di totalmente inedito, una serie in sei episodi per Disney+, diretta da Andrea De Sica e Giorgio Romano, intitolata Uonderbois, una urban fantasy ambientata a Napoli, una Napoli magica, perché Napoli è una città magica.