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Dopo Mezzanotte

Kami No Virusu

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La camera delle bestemmie, colonna sonora We’re not gonna take it dei Twisted Sister.

Ah, l’estate!

Quanto non mi è mai piaciuta!

Caldo, sudore, pessimi odori, zanzare e spossatezza persistente.

Fino a qualche anno fa almeno si poteva trovare un paio di aspetti positivi nelle città deserte e nelle arene cinematografiche.

Ma oggi che grazie alle ricette della UE siamo tutti più poveri, quelli che possono permettersi una vacanza sono sempre di meno.

Certo ci sono sempre i folgorati che per andare un mese a Malagrotta si indebitano con le banche chiedendo un prestito.

Ma quelli rientrano nella categoria dei casi clinici che scuotono alle fondamenta le mie convinzioni basagliane.

Quindi eccoci qui, tutti sudati e di pessimo umore ad esercitarci nella nobile arte dell’insulto acrobatico, prigionieri di soffocanti metropoli.

In più la diffusione dei siti di streaming ci relega ancor di più in casa, rendendoci tutti un po’ più asociali e vibrando una mazzata al cinema su grande schermo.

Per me poi, che non ho nemmeno una connessione internet a casa, questo ha significato espandere considerevolmente la mia collezione di DVD e VHS (si, le uso ancora…).

Morale della favola, anche le arene estive romane, tanto care al mio immaginario adolescenziale di refrattario alle spiagge, sono pericolosamente sull’orlo dell’estinzione.

Altri luoghi di socializzazione in meno e altre cause di stress per me.

Ci vorrebbe proprio una bella apocalisse zombie.

Ma di quelle serie, come solo Romero sapeva fare.

Un sacco di parcheggi, occasioni di spesa nei supermercati a prezzi stracciati e senza file da incubo e la non trascurabile possibilità di far saltare la testa a tutti coloro che indossino abiti che offendano il proprio senso estetico.

Tanto sono già morti, al massimo l’unica seccatura potrebbe essere la puzza, ma sono certo che anche a quella dopo un po’ ci si abituerebbe.

Peccato che la moda dei film di zombie sia passata da un pezzo e che Romero sia morto, senza prendersi nemmeno la briga di resuscitare (e come dargli torto?) per girare un nuovo film.

Quindi quando il grande capo mi passa un link per la visione di Kami No Virusu, col solito tono che sottintende che se questa cosa non la tratto io, nessuno lo farà (perché sono tutti troppo occupati a cercare il prossimo “nuovo Antonioni”), in realtà mi regala una graditissima boccata d’ossigeno.

E visto il caldo, anche una granita alla menta.

Intendiamoci, il film non vincerà mai l’Oscar, ma a parte questo, o forse proprio per questo, già mi fa simpatia.

Visionandolo mi trovo davanti ad una produzione che con i mezzi a disposizione nel 2023 possiamo solo definire surreale, per usare un garbato eufemismo.

È un corto che si presenta sgangheratissimo e come La grande truffa del Rock’n’roll non prova nemmeno a nascondere i propri limiti.

Ottimo!

Per me che da oltre trent’anni spreco il mio tempo libero suonando in un gruppo punk, queste son tutte medaglie.

Il corto è la classica storia incentrata sull’inizio di una ipotetica (e auspicata) epidemia zombie.

Oddio, non sarebbero propriamente degli zombie, ma sono tecnicismi alla Umberto Lenzi, che per non essere definito un regista horror chiamava “mutanti” gli ZOMBIE (!) del suo Incubo sulla città contaminata.

Ovviamente per rendere il tutto più appetibile, non si poteva fare a meno di ambientarlo nel contesto di una pandemia globale con delle multinazionali figlie di puttana che, pur di fare profitto, sono pronte ad inoculare alle masse dosi di vaccini sperimentali dagli effetti indesiderati sconosciuti tra i quali c’è ovviamente la trasformazione in mostro antropofago.

Mi ricordo che tanti anni fa, quando un po’ per gioco e un po’ per curiosità io e alcuni amici ci procurammo una confezione di Viagra, sulle avvertenze del bugiardino alla voce “effetti indesiderati” c’era scritto: prurito, nausea, morte improvvisa, eruzioni cutanee…

Ecco, allora la ditta farmaceutica che non nomineremo, ma che è la stessa che ci ha propinato un vaccino sperimentale a 20 dollari la dose, era più onesta e almeno ti avvisava che tra un’erezione, un prurito e un brufolo c’era anche la possibilità che tu potessi lasciarci le penne.

Il regista Luciano Attinà, che evidentemente ha i miei stessi problemi nel pagarsi un avvocato per difenderlo in una causa per diffamazione che una qualche multinazionale del farmaco potrebbe intentargli, nel suo corto sceglie dottamente di chiamare questa poco ipotetica azienda “Stoker” con un chiaro riferimento ai vampiri del libero mercato.

E questa non è l’unica tra le citazioni che da Cronenberg ad Herzog, passando per una fitta selva di grandi maestri della paura, trasudano in tutto Kami No Virusu.

Anzi sarebbe più corretto dire gocciolano, vista l’abbondanza di liquami sparsi qua e là lungo la narrazione, alla moda del primo Sam Raimi.

Ma forse le citazioni più interessanti non vengono dal cinema, ma dalla cruda realtà, quando le cronache della pandemia ci parlavano di spietati triage che nell’occidente liberale assumevano contorni sempre più sfacciatamente classisti, mano a mano che ci si avvicinava a Washington.

Da noi si sceglieva di far crepare in silenzio vecchi e improduttivi pensionati e si mandavano in fabbrica a contagiarsi grandi concentrazioni di operai, giusto per non fermare la produzione.

Invece in America gentilissime infermiere chiedevano ai pazienti poveri se non volessero cedere il loro posto in rianimazione a persone più produttive (ricchi del cazzo) per sopperire alla carenza di respiratori artificiali, nonostante quelli che avevano rubato in ogni angolo del globo, Italia compresa.

Guardando il corto non potevo non riconoscere quelle frasi spietate prese pare pare dalle dichiarazioni di dirigenti e governanti che tante volte abbiamo sentito durante la pandemia.

Il senso della critica classista del film lo si riconosce anche dalla scelta delle location, su cui vorrei spendere due parole.

Ho chiesto direttamente ad Attinà dove fosse girato e con sorpresa scopro che si tratta di Bologna.

Dico sorpresa perché nel vedere le file di palazzoni, mi sembrava di aver riconosciuto con una certa precisione una delle più degradate periferie a sud di Roma.

Un incubo di degrado, vetro e cemento che pensavo fosse unico nel suo genere e che invece Kami No Virusu mi dimostra essere una costante destinata a ripetersi all’infinito per definire gli inferni dove emarginare tutta quella massa di poveracci esclusa dagli apericena dei centri storici.

Le musiche ovviamente sono assordanti e come nella miglior tradizione del cinema di genere accompagnano rumorosamente tutto il testo filmico.

Certo la protagonista femminile poteva essere un pochino più scosciata.

Capisco l’esigenza di adeguarsi agli standard bigotti di Youtube, ma se vogliamo restare nel solco della tradizione del cinema di genere un po’ di bellezza va mostrata.

Ovviamente stiamo scherzando e gli attori, presupponendo che siano tutti amatoriali, se la cavano egregiamente.

Direi molto meglio di tanti professionisti pesantemente rubati al lavoro nei campi.

Non so se sperare che Attinà nei suoi prossimi lavori possa avere a disposizione un budget più alto.

Molte volte ho visto giovani registi rabbiosamente anarchici e creativi, smussare le lame del proprio odio di fronte alle esigenze di una produzione più commerciale.

E a me il film è piaciuto proprio per la sua spassionata sincerità, la cattiveria propria di un disco punk e l’amore del cinefilo inveterato.

Il ragazzo ha la stoffa e meriterebbe investimenti più sostanziosi.

Speriamo che possa trovare un produttore che gli dia la possibilità di sviluppare la sua poetica così com’è senza piegarlo alle logiche di mercato.

Colonna sonora:

Can your pussy do the dog? dei Cramps.

Kami No Virusu

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