Taxidrivers Magazine
Donne nel cinema western: Parte 1
“If they move. Kill ‘em”. Il western da riscoprire. Rubrica a cura di Eugenio David Ercolani
Published
13 anni agoon
Martha Jane Canary Burke (Calamity Jane)
Introduzione
Prima di dare inizio a questa prima parte del dizionario dedicata a quei film in cui la figura femminile è messa, per un motivo o per un altro, in risalto rispetto alla media, immergiamoci per un istante in un po’ di storia. Sicuramente il connubio West e leggenda riporta alla mente alcune di quelle piccole foto di un ingiallito bianco e nero costellate da spuntinature e graffi, quelle che ritraggono barbuti o baffuti uomini che con cappello in testa impugnano con fierezza, dignità o atteggiamento di sfida la loro arma, spesso guardando non in camera ma altrove. Sono così le foto arrivate fino a noi dei più importanti sceriffi e banditi dell’epopea western: Billy the Kid, Wyatt Earp, Buffalo Bill, Butch Cassidy, Sundance Kid e così via. Nell’immaginario collettivo le donne, quando appaiono, sono sedute al fianco del protagonista con postura dritta e vestiti fatti di merletti e rigonfiamenti. In effetti nella maggior parte dei casi era così, ma c’è sempre il rovescio della medaglia. Un esempio: Calamity Jane. Dimenticatevi la pellicola interpretata dalla vaporosa Doris Day, di cui parleremo più avanti, che piuttosto che un resoconto biografico assomiglia più a Little Rita nel West, ‘musicarello’ di Ferdinando Baldi con Rita Pavone.
Calamity, vero nome Martha Jane Canary Burke (1852-1903), nota per essere stata la prima pistolera donna, divenne famosa per la sua sregolatezza e per il vizio del bere e del gioco d’azzardo. In un’epoca in cui la donna era madre, moglie ed educatrice e la sua vita sociale era pressoché nulla se non in determinati ambiti, in primis la parrocchia locale, un personaggio come la Burke divenne presto un caso mediatico di notevole portata. Da grande provocateur quale era amava farsi fotografare con broncio da dura, in abiti maschili e spesso con in mano un mazzo di carte, un fucile o un boccale di birra. Ovviamente questo è il punto di partenza su cui si sorregge il mito di Calamity: grande cavallerizza, pistolera coraggiosa, infallibile e letale. Il comportamento estremo e anticonformista che traspare dalle foto che la ritraggono fa stendere su di lei la vernice indelebile dell’infedeltà storica, che tuttora viene alimentata. Ma questo è l’olio che lubrifica il motore di ogni figura leggendaria. Questo, e i seguenti numeri di Dust, saranno occasione per analizzare sia i film, ma anche la storia, quella vera o presunta tale, che ruota intorno alle donne in quell’era mistica che è stato il West.
Jennifer Jones in Duello al Sole (Duel in the Sun, 1946)
Gli zigomi pronunciati, gli occhi leggermente allungati, le sopracciglia alte e nette. Moglie, prima, dell’indimenticabile protagonista del capolavoro Delitto per delitto – l’altro uomo, Robert Walker, che non si riprese più dalla separazione e morì a 32 anni in un turbine depressivo di alcol e medicinali, e poi del Re Mida di Hollywood David O Selznick. Quattro volte nominata agli Oscar e vincitrice, nel 1944, per Bernadette, lei è Phylis Lee Isley, passata alla storia come Jennifer Jones. Quando approdò sul set di Duello al sole, la Jones aveva preso parte a soli sei film, ma aveva già collezionato due delle sei nomination e vinto una statuetta per la sopracitata evangelica pellicola di Henry King. Fortemente voluto dal suo produttore Selznick, Duello al Sole vede la Jones interpretare Pearl Chavez, una meticcia che rimane orfana perché il padre uccide la madre dopo averla trovata a letto con un altro uomo. Prima della sua esecuzione, Chavez Sr spedisce la giovane Pearl a vivere con la sua vecchia fiamma, nonché cugina di secondo grado, Laura Belle (la diva del muto Lillian Gish). Ad accoglierla, oltre a Laura, ci sarà il marito invalido Lionel Barrymore, subito ostile nei confronti della ragazza a causa di un’antica gelosia nei confronti di suo padre, e i figli Jesse (Joseph Cotten), gentile e riflessivo, e Lewt (Gregory Peck), uno sciupafemmine dal temperamento aggressivo che subito tenta di sedurre la giovane Pearl. Laura decide di mandare la nuova arrivata dal predicatore Walter Huston per ammonirla sui pericoli della carnalità. Pearl è decisa a rimanere illibata, ma una sera Lewt farà ingresso nella sua camera da letto, deciso a non farsi rifiutare, e da quel momento si andrà lentamente a creare una voragine di gelosia e odio che finirà per inghiottire tutta la famiglia… Come si può intuire da questa breve premessa e dalle tag-line della locandina (FURIOUS, UNFORGETTABLE LOVE!, Emotions… as violent as the wind-swept prairie!), l’impostazione è quella del melodramma caldo e sudato, non a caso il film fu ironicamente soprannominato da alcuni critici dell’epoca Lust in the dust (titolo che poi sarà ripreso da Paul Bartel nell’85 per una sorta di western parodia squisitamente trash). L’aspetto lussurioso del film fu scontatamente ritenuto inaccettabile nel pieno regime del codice Hays. Con pruriginosi intrecci familiari velati da uno strato di morbosità, analoghi a certe opere di Tennessee Williams, Duello al sole ebbe così non pochi problemi ad aggiudicarsi un visto censura in un’America postbellica impegnata a combattere l’immoralità in difesa delle menti e dei “puri fluidi corporei” della gioventù americana. A finire sul pavimento della sala montaggio ci fu una sequenza in cui la Jones seduttivamente ballava dinanzi allo sguardo voglioso di Peck. Altra scena ritenuta fin troppo scabrosa dai censori fu quella dello “stupro”, ridimensionata e ridotta per sembrare semplicemente ambigua.
Con Duello al sole, L’idea di Selznick fin da subito fu quella di cercare di ricreare il successo del suo Via col vento, riproponendo ingredienti simili conditi con spezie diverse. Il film, nonostante nel tempo sia stato rivalutato ampiamente e si sia guadagnato illustri sostenitori – tra cui Scorsese, che lo ritiene un assoluto capolavoro – al momento dell’uscita fu massacrato dalla critica, che ne sottolineava un’incoerenza narrativa di fondo. Duello al sole, però, fu un successo notevole, anche e soprattutto grazie alla sua controversa reputazione e al rapporto extraconiugale nato tra il produttore e la sua protagonista. Effettivamente il film, come sottolineato da molti, è piuttosto discontinuo, cosa probabilmente dovuta all’intervento costante di Selznick in fase di scrittura, ai tagli censori e al viavai di registi in tutte le fasi della lavorazione (nonostante la pellicola porti la firma di King Vidor che concluse lo shooting, il film ha avuto molteplici autori, tra cui Joseph Von Sternberg, William Cameron Menzies e William Dieterle). Il risultato però è affascinante, magnetico, soprattutto per l’interpretazione della Jones che dona a un personaggio fondamentalmente vittima una forza interiore capace di mettersi in mostra e di sopraffare gli uomini che la circondano, assumendo un ruolo del tutto atipico, specie quando alla fine, sotto il sole cocente e impietoso, da sola e con fucile alla mano, decide di confrontarsi con il suo nemico, il diavolo tentatore, il suo carnefice e l’incarnazione della sua perdizione. E si sa che non ci si può confrontare con il diavolo e vincere. Al massimo pareggiare…
Barbara Stanwyck in Le Furie (The Furies, 1950)
TC Jeffords (Walter Huston nel suo ultimo film) è un ricco proprietario di bestiame e di un terreno, le Furie, su cui ha costruito dal nulla un grosso ranch in cui abita la famiglia Herrera, che lui reputa vivere lì illegalmente. Questo pensiero ossessivo però non sembra essere condiviso da sua figlia TC Vance (Barbara Stanwyck). Di nascosto difatti la bella Vance porta avanti una liaison con Juan Herrera, sebbene, ossessionata come il padre dal denaro e dal potere, quello che desideri intimamente sia un marito forte e affidabile con cui gestire, dopo la morte del padre, le Furie. Però l’amore come sempre è cieco e, contrariamente ai suoi piani, la giovane finisce per innamorarsi di Rip Darrow (Wendell Corey), un cowboy da anni al centro di una silenziosa faida proprio con l’anziano Jeffords per la distesa di terra che reputa in parte sua. Questo amore proibito farà scoppiare una lotta tra padre e figlia che, tra impiccagioni e vendette trasversali, si concluderà in tragedia e bagnerà di sangue le Furie.
Questo splendido e poco menzionato film (assolutamente da recuperare il curatissimo DVD della Criterion), che vanta splendide location in Arizona, porta la firma di Anthony Mann. Autore complesso e da riscoprire che nel ‘50, anno di uscita de Le Furie, troviamo in un momento di svolta. Infatti, chiusa la fase del pulp noir, genere in cui per tutti gli anni Quaranta era stato prolificissimo, debutta nel western, genere di cui diventerà assoluto maestro con due pellicole. Lo stesso anno difatti uscirà il più famoso, e anche riuscito sul piano della struttura, Winchester ‘73, con protagonista James Stewart, che con Mann darà vita a uno dei più riusciti sodalizi interprete/autore della storia del cinema. Nonostante la ruggine che copre certi ingranaggi de Le Furie, ad esempio il finale troppo frettoloso, che con difficoltà cerca di far tornare tutti i vari intrecci di una storia complessa e a tratti contorta, comunque il risultato è davvero affascinante. I personaggi di Mann, rispetto a quelli di John Ford ad esempio, sono sempre profondamente turbati e spesso caratterizzati da disturbi psichiatrici profondi. Con questo in mente si può considerare Le Furie l’emblema del cinema di Mann, la summa del suo immaginario. Un ibrido in cui un’attenta analisi psicoanalitica di stampo freudiano viene inserita in un contesto in parte western-avventuroso classico e in parte melodrammatico-femminile che, anche in questo caso, come per il film di Vidor, ha dato non pochi problemi ai censori dell’epoca. Il tutto, tra l’altro, contaminato da esplicite inflessioni shakespeariane. Mann ha più volte rimarcato il desiderio di voler fare un film tratto dal Re Lear e i risultati di questa ispirazione non saranno mai così evidenti come nel caso de Le Furie.
Volendo creare un parallelo tra le due pellicole, si potrebbe dire che sono due facce della stessa medaglia. Il contesto familiare e le rivalità dure e nette in un nucleo compatto e preciso sono sicuramente i punti d’unione più forti, ma se nella creatura di Selznick il melodramma è più esplicito e più “costruito”, nel senso che c’è la volontà di attrarre e scioccare e i toni sono più espliciti e “popolari”, nel caso del film di Mann tutto è più chiuso, nervoso e analitico. In questo senso si possono prendere le due protagoniste e osservarle sul piano visivo, nell’essere ambedue la fiamma del peccato, gli oggetti del desiderio. In questo senso la Pearl di Jennifer Jones è più ammaliante, provocatrice, anche più ingenua con le sue spalle nude e i vestiti discinti, mentre la Barbara Stanwyck di Mann è calcolatrice, consapevole, maschile, più coperta e ordinata. Tutte e due, però, sono donne che sanno quello che vogliono e le loro volontà, per quanto inaccettabili per l’epoca, non saranno piegate dai dogmi del contesto socio-culturale. Magari stroncate sì, ma piegate mai…
Eugenio Ercolani