Relic è un film del 2020, esordio dell’australiana Natalie Erika James accolto con entusiasmo al Sundance Film Festival. Prodotto da Screen Australia, Film Victoria, AGBO e Carver Films. Ricorrono tra i produttori esecutivi Anthony e Joe Russo e l’attore Jake Gyllenhaal.
Definito da Indiwire come il quinto miglior film indipendente del 2020, Relic segue Kay (Emily Mortimer) e sua figlia Sam (Bella Heathcote), mentre si recano a Creswick per far visita alla madre di Kay affetta di Alzheimer, Edna (Robyn Niven). Su sollecitazione della polizia che non vede la donna da giorni, figlia e nipote si precipitano a casa sua per scoprire lentamente che Edna non è più la stessa ed è tempo di fronteggiare il cambiamento.
La pellicola è un affondo in chiave horror nella risposta alla malattia fisica e psichica di un membro della famiglia, con un uso interessante della metafora per raccontare il femminile come perturbante.
Edna (Robyn Niven) è un’anziana signora che vive da sola nella cittadina di Creswick. Quando scompare, sua figlia Kay (Emily Mortimer) e la nipote Sam (Bella Heathcote) si mettono in viaggio per raggiungere la tenuta in campagna. Arrivate sul posto, si accorgono che la casa di Edna è in stato di abbandono e l’intera abitazione è disseminata di cartoncini atti a supportare la sua memoria.
Le ricerche sono vane e le due donne sono costrette a rimanere per la notte. L’indomani Edna si palesa dal nulla, sporca di fango e con un segno riconoscibile sul petto, ma non sembra sconvolta. L’attenzione di Kay e Sam è massima. Iniziano a notare strani eventi, che riconducono all’emersione di una demenza senile. Non sono d’accordo sul da farsi e non si accorgono che la situazione peggiora in un’escalation imprevista.
In quest’opera tutta al femminile, le tinte horror si mescolano al dramma in un impasto di registri dai significati plurimi.
Relic, un’opera autoriale
Pollicino ha lasciato le sue tracce. Ecco che emergono inevitalmente chiari riferimenti a Hereditary di Ari Aster o Babadook di Jennifer Kent. La matrice autoriale di Relic è rintracciabile nel tipo di terrore generato e nella rete semantica a cui allude attraverso il mezzo espressivo del genere.
Gli elementi mostruosi peculiari dell’horror, con il corollario di jump scares in chi guarda, servono come gancio narrativo per tenere accesi altri topoi, come quello della malattia, dei legami familiari o del rapporto tra diverse generazioni. A differenza degli esempi citati, il portato simbolico del lavoro di James si gioca sugli strumenti tecnici dell’haunted house movie. Non solo da un punto di vista squisitamente spaziale, la scelta di far evolvere la storia in quell’unico ambiente, tranne poche scene cupe all’esterno, contribuisce ad accrescere i simbolismi presenti nella pellicola. Poco importa che non sempre si tratti di escamotage originali.
È la relazione tra vedo e non vedo ad avere una resa efficace come terzo che conturba. Un’inquietudine che sta nell’invisibile e a cui il visibile rimanda in continuazione. Ci troviamo dinanzi alla diramazione del post-horror, interpretata in maniera autoriale come un esempio di genere che, oltre ad agire il racconto, riflette sulle proprie possibilità.
Relic, la casa come metafora della mente
L’esplorazione della casa è un viaggio dentro la mente delle tre donne ed è anche l’attraversamento temporale del loro legame. Si staglia come espediente fisico e visivo che conduce i personaggi verso consapevolezze dolorose, dapprima ignorate e rigettate, successivamente inglobate nella cornice dello sguardo. Una pista psico-analitica a partire dall’irrompere della malattia, che irrora paure e rimorsi.
Sulla rivista Flickering Myth, la regista commenta così il design della casa:
Il modo in cui abbiamo progettato questo spazio non intendeva evocare un universo alternativo o una dimensione parallela. Volevamo che sembrasse parte della casa. Abbiamo usato lo stesso linguaggio architettonico, basandoci anche maggiormente sul senso di come l’Alzheimer può influenzare il cervello. Cose che si ripetono dove non dovrebbero e cose che mancano, ad esempio scale che non portano a niente, porte che non hanno una funzione. Rovina la logica architettonica nello stesso modo in cui l’Alzheimer colpisce il cervello.
Il gioco di riempimento tra i picchi causati dal mostruoso che si svela e l’attesa acuita dai silenzi è elemento di pregio della regia.
È interessante scoprire che, alle prime avvisaglie orrorifiche, Kay e Sam da una parte minimizzano, dall’altra sembrano quasi essersi già abituate. Questo contrasto spiazza e alimenta la curiosità sulla posizione delle due donne, su come intenderanno gestire gli eventi, sull’evenienza che affrontino finalmente l’inaffrontabile.
Come doveva andare
L’invecchiamento dei genitori non può rimanere per sempre il fuori campo dell’esistenza dei figli. Messi all’angolo dalla coscienza, è comune percepirsi inadeguati. Tuttavia, il primo passo è sforzarsi di guardare. Questo lavorio dello sguardo è il bandolo della matassa che si srotola nel film. Dapprima assistiamo alla strada che conduce alla dimora di Edna, poi la sua casa, infine lei e i suoi cambiamenti. L’anziana signora vuole essere vista ed intrappolate nella sua abitazione, di base più familiare alla donna che alle altre due, Kay e Sam saranno costrette a farlo.
Nessun mirabolante salto giù dal divano e occhi scoperti, Relic opera come un lento amplificatore di impotenza e dolore, una compressione emotiva tra passato e presente, senza futuro.
Meglio affrettarsi per accettare le cose come dovevano andare. La muffa avanza inequivocabilmente e ricopre quasi tutto, contagiando il tessuto stesso dei rapporti di coloro che abitano la casa. La strumentalizzazione del genere per fini superiori è presto realizzata: quando la trasformazione diventa corporea, completa il suo ciclo. Sovvertendo l’ordine mantenuto fino a quel momento con la scoperta dell’inaccettabile per un figlio, solo l’amore rende salvi, ma definitivamente altri da sé.
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