Il regista svedese offre una masterclass curiosa e coinvolgente svelandosi al pubblico: "Il mio obiettivo è creare la più grande fuga dalla sala della storia del Festival di Cannes"
Istrionico, nordico e di bella presenza, il suo inglese nasale ci ricorda che viene dalla Svezia: Ruben Östlund si è prestato ad un’ora di dinamica confessione, personale e professionale, con la giovane platea del festival Il Cinema Ritrovato di Bologna.
Ad oggi il suo talento è indiscutibilmente riconosciuto dal momento che il suo ultimo film, Triangle of Sadnessha vinto la Palma d’Oro ed è poi stato candidato agli Oscar. Ma Ruben Östlund è prima ancora il regista di Involuntary, Play, Forza Maggiore e The Square, tutti film fortemente provocatori (sotto diversi punti di vista), e che quindi hanno lasciato il segno.
Figlio di genitori entrambi insegnanti che gli hanno trasmesso curiosità ed apertura verso la società, Östlund eredita la passione per la sociologia e le tendenze politiche proprio dalla madre. Sebbene la sua famiglia fosse di classe media, si appassiona presto allo sci, uno sport che gli consentirà di accedere al mondo del documentario sportivo. Da cui inizia la sua carriera.
Skiing was considered an upper-class sport. In spite of my middle-class family, my parents supported me.
È infatti proprio con uno dei suoi prodotti sullo sci che accede alla scuola di cinema di Göteborg, in un momento in cui la Svezia cinematografica era insolitamente polarizzata: da una parte Bergman e la sua scuola di pensiero (radunata a Stoccolma), e dall’altra Bo Widerberg. Ruben Östlund non ci mette molto ad affermarsi come anti-Bergman e a fare dello strumento cinematografico un sistema di indagine quasi voyeuristico della vita.
Sociology was brought in my life very early.
Alternando esempi di esperimenti sociologici su cui si dimostra particolarmente ferrato, ad aneddoti della sua vita, Östlund porta gli ascoltatori de Il Cinema Ritrovato nel suo personale viaggio di formazione, come fosse uno schema miracoloso i cui pezzi ci sembrano più definiti adesso che ha vinto due Palme d’Oro.
Ma l’accesso al successo, lo descrive nuovamente come fosse stato un viaggio di piacere:
I’ve been working with a group of friends, giving each other energies, supporting each other. It has been very stimulating, and we supported each other. The hard part of filmmaking it became enjoyable.
Ruben Östlund e il fascino discreto della critica
La parte più spumeggiante della conversazione arriva quando il regista confida in realtà il suo rapporto con la maturità espressiva, che comprende anche la relazione con la critica cinematografica. Il suo intento, dichiara, è quello di
[…] make a film that the film critics don’t know how to relate to.
Una aspirazione che lo porta ad affermare candidamente
I understood how to use some kind of provocation to get attention.
Eccolo dunque in tutta la sua presenza scenica, consapevole degli strumenti da utilizzare e del come maneggiarli per ottenere un risultato. Prepara la fascinazione degli spettatori, sapendo di fornirgli a breve l’anticipazione che tutti desiderano.
Prosegue quindi nel suo ragionamento,
I want the audience to think themselves, I’m not going to help you on that.
Finché non approdiamo alla questione dei piani sequenza, una tra le scelte più radicali del suo cinema. Una costrizione che si impone in principio pur di limitare il range delle possibilità narrative disponibili: anche in un ambiente così rischioso, insegue la perfezione e porta i propri attori a bramare la fine delle riprese. Le stesse, spesso interrotte in corso di lavorazione e recuperate il giorno dopo dal punto in cui si era abbandonato il set, a volte con la camera ferma tre giorni nella stessa inquadratura. E il tradizionale comando “azione”, sostituito da un clamoroso gong, per dare la carica.
Un manicheista del linguaggio visivo, Ruben Östlund insegue l’originalità, affinché nessun taglio sia solo un passaggio. E per questo ripete anche venti volte lo stesso lungo piano sequenza.
Up to take 25th, I’ve used all these takes to try out things. Up to take 25 is like shaping shaping shaping. I’m always trying to find something unique. Then I give a break and then ask for 5 last take.
Confessa, in Play ha superato il centinaio per una sola sequenza. Ma sta proprio in quell’assurda ossessione la chiave di volta della sua impresa mediatica. Perché di cinema, a questo punto, non è più possibile parlare.
My goal is to create the biggest walk out in the Cannes Film Festival history.
L’avventura Hollywoodiana e Triangle of Sadness
Ruben Östlund si avvicina al mondo della moda quando conosce la moglie. Da sempre votato ad identificare una linea sociologica nella sua indagine, trova le ricerche di questo sociologo che si era domandato come mai le zebre fossero bianche e nere. Pur crescendo in un ambiente virato al giallo, il loro aspetto non le rende mimetizzabili, anzi al contrario facilmente individuabili. Tuttavia, il sociologo elabora l’ipotesi che possa esserci una relazione con il branco, e il camuffamento del singolo individuo all’interno del gruppo.
Quel ricercatore affianca così l’indagine sulla condizione delle zebre, curiosamente, alle prassi dell’industria della moda che, allo stesso scopo, per rendere cioè gli individui conformi al gruppo, alimenta la produzione di sempre nuovi vestiti e nuovi camouflage.
E così che è iniziato Triangle of sadness, oscillante tra piani narrativi e tematici infiniti, esilarante, dissacrante. Ed è con quella che finisce, a detta del regista, la sua esperienza con Hollywood.
Ruben Östlund torna a lavorare nel sistema produttivo Europeo per il suo prossimo progetto, di cui fieramente racconta alla platea rapita de Il Cinema Ritrovato.
The entertainment system is down è il titolo del prossimo progetto, che racconta reazione che l’annuncio del titolo crea tra passeggeri di un volo di linea. Dal momento che il sistema di intrattenimento va in tilt, a questi non rimane che tornare all’intrattenimento “analogico” per resistere alla noia.
This is like using the cell phone. It’s a possibility to avoid thinking.
Visivamente fiero ed entusiasta della sua idea, racconta come tra i personaggi una madre con due figli cerchi di risolvere l’uso di un iPad conteso costringendo il fratello minore ad una estenuante e noiosissima attesa di dieci minuti prima di accedere al tablet. Con sottile auto-ironia, o forse minacciando altrettanto sottilmente il pubblico, Ruben Östlund ci dice che in realtà ci sta pensando seriamente a piazzare il ragazzo per dieci minuti in un long shot in faccia agli spettatori, costretti anche loro ad una attesa cinematografica alle soglie dell’inaccettabile.
Certo che dopo questa appassionata anteprima del suo prossimo progetto, di cui ha fondamentalmente spoilerato uno dei momenti salienti (e non solo in occasione del festival, ma anche in altri contesti), ora ci si domanda se questo svedese frizzante avrà davvero il coraggio di impalare un ragazzino per dieci muniti ad annoiarsi con lo sguardo in camera. In questa operazione virtuosamente meta-cinematografica, c’è questo esperimento sociologico che porterebbe il cinema in una direzione ulteriore. Perché anche questa assidua promozione della sua ideale geniale arriva consapevole dell’aspettativa che crea: è un artifizio comunicativo, sociologico, e autoreferenziale. E, in un senso o nell’altro, andrà comunque a scontentare qualcuno: chi si aspetta i dieci minuti di nulla, e chi invece attende un cambio di rotta altrettanto imprevedibile.
Chi lo troverà geniale, chi criminale.
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