Renato Carpentieri, una voce sempre originale nel panorama del cinema italiano si racconta: dagli inizi nel mondo del teatro al debutto sul set con Gianni Amelio e Gian Maria Volonté in Porte aperte (1990), fino al David di Donatello per La tenerezza (2017).
Si ricorda com’è stato debuttare nel cinema, dopo tanti anni di attività teatrale, anche d’avanguardia e politica?
Me lo ricordo sì, è rimasto fortemente impresso nella mia memoria. Era la scena in Porte aperte in cui il giurato Consolo vedeva in Piazza San Francesco il giudice seduto e, prendendo coraggio, gli andava a parlare. Il giorno in cui avremmo dovuto girare, Gianni Amelio mi presentò Gian Maria Volonté, dal cui confronto ero molto intimidito. Trascorsi tutta la mattinata a ripetermi le battute e, siccome c’era un mercato lì vicino, comprai dei semi che poi ho usato nella scena. Finalmente vengo chiamato da Gianni Amelio, che mi dice: «Adesso facciamo un piano a due». Io, mentre iniziavo a recitare, ho visto l’atteggiamento che teneva Gian Maria Volonté, che doveva essere di distanza, di una certa sprezzatura nei miei confronti, come a dire: «Ma che vuole questo?». E ho notato che c’erano solo delle piccole variazioni dei muscoli facciali che stabilivano il suo rapporto con me. Rammento che, mentre cercavo di ricordare la mia parte, lo ammiravo, dicendo tra me e me: ecco, questo è l’attore di cinema. Capii che dovevo lavorare per sottrazione.
Gian Maria Volontè in Porte Aperte di Gianni Amelio
A teatro si è abituati a una gestualità più plateale?
Sì, è una recitazione che descriverei più espansa rispetto al cinema, che può giocare sui primi piani, sui movimenti della macchina da presa.
Quello che colpisce nella sua recitazione non è solo la mimica, ma l’uso della voce.
Quello è principalmente merito delle sigarette… Però mi sono persuaso, nel corso degli anni, di una cosa che, purtroppo, mi farà parlar male dei giovani attori che si stanno affermando in questi ultimi anni. Mi sono convinto, per quanto riguarda l’uso della voce, che, prima di tutto, bisogna farsi capire, si deve comprendere quello che si dice mentre reciti, che pare non sia più una cosa scontata. Secondo: devi aver chiare le tue intenzioni, cioè il senso di quello che vuoi dare, con la recitazione, al tuo personaggio. Poi, le parole risuonano. Cioè, se una cosa è scritta bene, e un testo teatrale solitamente lo è, ma può esserlo anche una sceneggiatura, le parole risuonano tra loro, creano un mistero che si deposita nella mente di chi ascolta, sedimentano, lasciano scoprire il loro mistero, si rivelano. Nella prima e nella seconda fase che ti ho descritto, c’è il senso di quello che si dice, nella terza, la magia dell’arte. Nella recitazione ci deve essere un gusto, anche nell’uso della voce.
Gianni Amelio e Renato Carpentieri
Gianni Amelio è stato il primo dei suoi registi cinematografici e un po’ il filo conduttore della sua carriera. Qual è il vostro dialogo artistico dentro e fuori dal set?
Ho avuto sicuramente fortuna nell’incontrare Gianni Amelio. Ho subito riconosciuto in lui un maestro. Perché, per me, il film Porte aperte è stato l’università, altro che le scuole di recitazione. Lui e Gian Maria Volontè sono state le guide che mi hanno introdotto nel mondo del cinema. Su quel set, Gian Maria Volonté non mi ha tenuto a distanza, come temevo, ma è stato un compagno, mi ha dato consigli. Per esempio, mi ricordo lui che, mentre recitavo la scena finale, mi guardava e diceva: «Fai di meno». Gianni Amelio, per Porte aperte, ha fatto una scommessa su di me. Lui dice che mi aveva già visto a teatro, ma io non ne sono così sicuro. Abbiamo fatto un incontro, che è durato due o tre ore, in cui abbiamo semplicemente parlato, dopo di che mi ha preso. Io, al cinema, prima di allora, non avevo mai fatto niente né Gianni Amelio mi ha fatto un provino di tipo classico. Leggenda vuole che Gian Maria Volontè, dopo la nostra prima scena insieme, abbia detto a Gianni Amelio: «Ma dove l’hai trovato?» (in senso positivo). Ora tu immagina la mia soddisfazione d’aver lasciato contenti due come Gian Maria Volontè e Gianni Amelio al mio debutto di fronte alla macchina da presa. Dopo Porte aperte, ho fatto una parte in Il ladro di bambini e, infine, La tenerezza, che nasce dal fatto che Gianni Amelio, in qualche modo, mi ha scelto come suo alter ego. Io mi sono molto fidato di lui e lui di me: quando succedono queste cose, tutto funziona.
Giovanna Mezzogiorno e Renato Carpentieri in La tenerezza di Gianni Amelio
Che cos’è per lei il cinema d’impegno che sembra aver sempre prediletto?
Non so se lo definirei cinema di impegno, almeno non nella sua classica accezione. Per me, ogni storia che si racconta, dovrebbe avere una risonanza superiore, più vasta della vicenda in sé. Si sta parlando dell’amore di due persone in una situazione difficile? In questo caso, la risonanza dovrebbe consistere nel fatto che, le parole che dicono, le situazioni che vivono, allargano l’esperienza di quella singola vicenda, parlando a tutti gli spettatori, definendo un tempo della loro vita personale e sociale, altrimenti è solo la storia di due individui. Le classi sociali esistono ancora e anche raccontando una storia d’amore si possono descrivere i problemi del nostro tempo, le disuguaglianze e tutte queste cose. Quindi, se cinema d’impegno vuol dire riuscire a raccontare la realtà, anche non facendo un film programmaticamente politico, allora sì, io sono per il cinema di impegno e ho sempre cercato di fare questo cinema d’impegno, quello in cui, attraverso il racconto di una storia, si hanno degli elementi in più per comprendere la società.
Un altro regista con cui ha spesso collaborato, tra cinema e teatro, è Mario Martone, napoletano come lei. Che affinità intellettuale si è creata tra voi?
Con Mario Martone la cosa è stata un po’ diversa rispetto all’incontro con Gianni Amelio. Nonostante Mario Martone sia più giovane di me, io ho cominciato dopo di lui, perché lui ha iniziato nel teatro giovanissimo. Devo confessare che, da principio, c’era un po’ di diffidenza tra noi. Ricordo quando ci siamo incontrati al premio Sacher e abbiamo deciso di vedere se potevamo far nascere qualcosa insieme. Così è cominciata questa collaborazione, prima a teatro, con il Riccardo II di William Shakespeare, in cui facevo entrambi gli zii di Riccardo, sullo sfondo della guerra delle due rose tra Lancaster e York. Fu uno spettacolo molto originale. Poi abbiamo girato Morte di un matematico napoletano, un cast in cui ci conoscevamo tutti. Da lì non ci siamo più fermati, sia a teatro che al cinema. Lui ha un modo particolare di lavorare, dà moltissima fiducia, con lui mi sono abituato al fatto che il regista sta a sentire l’attore. Ascolta tutto quello che proponi, poi, certo, decide lui. Un tipo di dialogo non così frequente: questo ha fatto nascere molte belle cose insieme.
Andrea Renzi e Renato Carpentieri in Riccardo II, regia di Mario Martone
Cosa cambia tra palcoscenico e set nella recitazione?
Alla fine, niente. Alla fine, l’importante, secondo me, è esserci, sul palcoscenico o sul set. Certo, tra le due cose c’è una differente concentrazione. A teatro, l’attore è concentrato su cinquanta pagine o trenta o dieci, a seconda del ruolo che ha, e deve sapere tutto a memoria, tutto insieme, per un periodo che vada dall’ora alle due ore e mezza. Al cinema, invece, l’attore deve concentrarsi sul pezzettino che deve recitare quando si va sul set il giorno delle riprese, magari lo rifà tante volte e deve avere la stessa forza interpretativa tutte le volte. Quando dico forza interpretativa, intendo anche la debolezza che deve riuscire a mostrare, se il suo personaggio lo richiede. Questo può succedere per venti ciak distribuiti nell’arco della giornata. Quindi, tra teatro e cinema, i tempi sono diversi. A teatro, tu hai il pubblico, la tua opera intera e sei corpo, voce, presenza. Al cinema, invece, sono importanti quei pezzetti che vengono poi ricamati insieme. Magari sul set c’è anche casino e non il silenzio del teatro, ma, alla fine, la cosa importante è esserci, farlo. Essere quella persona che vuoi interpretare.
Da decenni si dice che il cinema italiano è in crisi. È davvero così?
Quanto il cinema italiano sia in crisi è difficile dirlo. Però una cosa fa riflettere: ogni anno, nel nostro Paese, si producono circa duecento film. Ma com’è che poi ai premi arrivano sempre gli stessi film degli stessi autori? Io in questo vedo il segno di una crisi. La mia impressione è che non ci sia il giusto ricambio generazionale e che i registi giovani non facciano opere di grande qualità. Questo vale sia per i registi che per gli attori, che posso valutare meglio. Io ho sempre come punto di riferimento quello che Gian Maria Volonté chiamava contributo linguistico dell’attore. Nel ruolo c’è l’attore. Il regista è fondamentale nel dirigerti, ma poi è l’attore che riempie il ruolo. Il regista può dire sì o no, fare tutti i movimenti di macchina che vuoi, ma, se non c’è l’attore, nulla passa del film allo spettatore. Adesso, quel contributo linguistico, quella partecipazione al ruolo dell’attore, il suo contributo originale, non è più richiesto. Oggi, si fa un numero enorme di opere destinate a diversi segmenti di mercato, soprattutto tanta fiction per la televisione e serie per le piattaforme. La mia impressione è che ci siano quei tre o quattro grandi attori, che sono sempre gli stessi, e poi ci sono gli attori funzionali. Claudio Meldolesi, un eccellente storico del teatro, a proposito del passaggio del teatro italiano dal grande attore alle compagnie e le sovvenzioni statali, nel suo libro Fondamenti del teatro italiano, ha dedicato un capitolo a questo. Lui dice che l’autonomia autoriale dell’attore, o contributo linguistico come diceva Gian Maria Volonté, è stata cancellata in questo passaggio. E cosa si è preteso? Quello che Claudio Meldolesi ha giustamente chiamato attore funzionale. Le serie televisive sono il regno degli attori funzionali. Nel passato, questi attori funzionali avevano un loro preciso stile, sia nella presenza scenica sia nell’uso chiaro della voce (tanto che un tempo si chiamavano proprio attori di voce). Adesso, l’attore funzionale è quello che recita solo per cliché d’interpretazione, in un ripetersi continuo di stesse immagini. L’impressione è che i giovani attori si stiano tutti conformando a questi cliché.
Renato Carpentieri in scena con Il complice di Friedrich Dürrenmatt, di cui è anche regista
Non a caso, generalmente, le serie televisive sono costruite su quello che il pubblico si aspetta.
Questo non vale solo a livello di scrittura. Oggi gli attori sono utilizzati solo per le belle facce, non c’è più autonomia d’interpretazione. Il mestiere dell’attore è diventato apparentemente più facile, può dare anche molte soddisfazioni economiche, ma bisogna essere conformi. L’attore viene utilizzato alla stregua di un attrezzo, una bella faccia, ma senz’anima. Purtroppo, quello che si vende nella maggioranza dei casi sono i «paccotti», come si dice a Napoli, magari ben confezionati, con tre o quattro attori di grido su cui basare un canovaccio. Per il resto, un altro gruppetto di attori funzionali che fanno le parti esattamente come è stato imposto.
È un problema di attori o produttori?
Non solo di attori e produttori. In molti arrivano alla regia senza avere alcuna idea di come si recita. Non sanno neanche cosa possono chiedere all’attore, cosa può dargli in più per migliorare un film. Ma la colpa, secondo me, è generale. Oggi ci sono tantissime scuole di cinema e recitazione, ma lavorano tutte nello stesso modo, standardizzando i metodi. Tranne rari casi, è difficile riconoscerli, gli attori sembrano intercambiabili, ma l’interprete non dovrebbe essere un attrezzo che può essere sostituito da un altro uguale. Anche i casting, ormai, hanno un ruolo, a mio parere, distorsivo della pratica attoriale, imponendo, anch’essi, una standardizzazione di volti e recitazione. I registi avrebbero bisogno non solo di vedere film, ma tutto quel che riguarda un attore, per esempio andando a teatro.
Ricordo una frase del regista inglese Sam Mendes che diceva come, per lui, il teatro fosse sua moglie e il cinema la sua amante. È un po’ così anche per lei?
E qual è meglio delle due? Bisognerebbe scoprirlo… Il teatro è più libero del cinema. Quest’ultimo mi sembra diventato una merce confezionata sul tempo, che deve interessare un pubblico molto vasto. Della televisione non parliamo nemmeno. Puoi fare le cose fino a un certo punto. Per esempio, io ho recitato nella Squadra e lì ti dovevi fermare alla concezione della legalità che aveva la polizia. Nel cinema ti puoi spingere un po’ più in là, ma il film deve durare un’ora e mezza, un tempo prestabilito, e deve essere confezionato in un certo modo. In questo senso, non mi meraviglio tanto della normativa Netflix, che dice che, dopo il settimo minuto, deve necessariamente succedere qualcosa, al quindicesimo ci sta l’incidente è così via. Il teatro, invece, parla a una nicchia, non si pone il problema di dover piacere a una massa, quindi è più libero. Infatti, si fanno anche cazzate incredibili: un brutto modo di sfruttare questa libertà.
Renato Carpentieri in scena in Le braci di Sàndor Màrai, regia di Laura Angiulli
Il teatro, però, sembra che oggi tiri solo se sul palcoscenico si vedono, come sempre più spesso accade, spettacoli con gente del cinema o della televisione.
Ci sta pure quasi sempre lo schermo nella scenografia. In effetti, sembra che il teatro vorrebbe essere il cinema, in particolare nelle sue espressioni più costose, cioè gli Stabili. In realtà, a me sembra che, più che al cinema, loro puntino all’opera lirica, confondano la prosa con il gigantismo che può avere la lirica. Ma non è così. Il teatro è uno che sta là e racconta una storia. E quella storia ti deve rimanere dentro, devi andare a casa e continuare a pensarci. È una cosa semplice, tutto sommato. Il teatro si potrebbe fare con poco.
Si percepisce, dalle sue parole, come la radice teatrale sia rimasta fortissima dentro di lei.
Il cinema è un’industria, non bisogna mai dimenticato. È un industria che cerca, come regola ferrea, di fare soldi. Può succedere che produca arte e, in quel caso, diventa una cosa meravigliosa. Può succedere, ma succede sempre meno. Tu pensa a uno come Orson Wells che fa l’Otello: ci ha messo tre anni perché non aveva soldi. Per farlo, girava una scena di qua e una di là, in tempi completamente diversi, dall’Europa all’Africa. Questa energia, questa genialità, dov’è oggi? Se già a quel tempo era difficile fare un cinema del genere, adesso non si può fare proprio.
Il cinema oggi sta messo così male?
Sta messo male, però ci sono ancora degli autori che riescono a fare qualcosa di bello.
Quei quattro o cinque di cui parlava prima…
Esatto, quei quattro o cinque di cui sopra: Marco Bellocchio, Gianni Amelio, Roberto Andò, Mario Martone, Nanni Moretti e poi mi sono piaciuti i due registi di Otto montagne.
Renato Carpentieri e Nanni Moretti in Caro diario di Nanni Moretti
Impressiona particolarmente Marco Bellocchio, una specie di forza della natura cinematografica. Come stia riuscendo, in questi anni di piena maturità, a fare un film dietro l’altro, di grande qualità.
Concordo, ma, secondo me, non ha più la forza rivoluzionaria che aveva nei Pugni in tasca. Dal punto di vista formale è un regista ineccepibile, che restituisce con grande forza visiva l’apparenza del potere. A me, però, piacerebbe scoprire di più, dietro quella forma, dietro quella perfezione della messa in scena. In Esterno notte sembra che salvi tutti, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, in nome della ragion di Stato. Ma quali trame ci sono state dietro, se ci sono state, non si azzarda neanche lui a rivelarle o a supporle. Forse, se ci avesse provato, chissà, neppure lui sarebbe riuscito a fare il film. Tutta la parte accusatoria nei confronti della Democrazia Cristiana che sta in Esterno notte è presa dalle lettere, pubbliche, di Aldo Moro.
In cosa la vedremo prossimamente?
In un film di Edoardo Leo che s’intitola I peggiori giorni, sarà distribuito ad agosto. È una sorta di versione doppia di I migliori giorni, uscito a gennaio 2023, sempre di Edoardo Leo.
Com’è stata l’esperienza di partecipare a questa edizione dell’Italia Film Fedic?
In questi giorni passati qui a Montecatini, mi avete restituito passione per il cinema in un momento di crisi che stiamo vivendo per la settima arte. La mia formazione proviene proprio dai circoli del cinema come quelli della Fedic, erano una grande opportunità per vedere cose straordinarie. Svolgevano una funzione importantissima per la società. In questo festival ho visto che c’è ancora gente con questa grande passione e lascia ben sperare per il futuro.
Renato Carpentieri e Pierfrancesco Favino in Hammamet di Gianni Amelio