L’uscita quasi in contemporanea di due film come Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana e Diaz di Daniele Vicari offre lo spunto per una riflessione sullo stato dell’arte del cinema politico in Italia. Per gli standard del nostro cinema si tratta di due lungometraggi che potremmo definire mainstream, in quanto vedono coinvolte grandi case di produzione in collaborazione con partner stranieri: nel primo caso si tratta di Cattleya e Rai Cinema, nel secondo di Fandango. Entrambi i film hanno usufruito dei finanziamenti del Ministero per i Beni Culturali (rispettivamente 800 mila e 400 mila euro su un budget di 9 e 7 milioni di euro). La presenza di grandi investimenti dimostra come sia possibile fare un cinema non di sola testimonianza con contenuti politici non omologati, anche se, probabilmente, da ciò possono derivare delle limitazioni sui contenuti espressi.
Nel film su piazza Fontana il pegno si paga nella ricostruzione della morte di Pinelli. Giordana, agendo con correttezza, non ha omesso il ruolo che ognuno ebbe nella ricostruzione fasulla proposta dalla questura di Milano, ma ha utilizzato gli spazi lasciati “vuoti” dalla documentazione storica prevalente per arrivare ad ipotizzare un’amicizia tra Calabresi e Pinelli che gli amici dell’anarchico ritengono non rispondente a verità. Giordana si schiera decisamente con la versione emersa dalle indagini successive, ma fa di più quando evita di disegnare un contesto verosimile in cui possa essersi svolto l’interrogatorio che si è concluso con la morte dell’interrogato. D’altronde Giordana avrebbe avuto la libertà di ricostruire diversamente questi fatti, anche distaccandosi dalle mere evidenze giudiziarie, esattamente come ha fatto con Valpreda che, sebbene assolto dai tribunali dall’accusa di aver piazzato la (o una) bomba a Piazza Fontana, non viene nettamente scagionato nel film. Ora non è necessario sostenere che il regista abbia dovuto fare violenza sui suoi liberi convincimenti, sta di fatto, però, che oggi probabilmente un film che si spingesse oltre a quanto fatto da Giordana non potrebbe aspirare all’ampiezza produttiva di cui quest’ultimo ha goduto. Giordana solleva dubbi sulla piena lealtà democratica di servizi segreti, ministri e presidenti della repubblica, ammette di credere al silenzio di Aldo Moro su tentativi di colpo di stato, sebbene in nome di una più alta ragione di stato, ma non riesce ad offrire un’ipotesi verosimile sulla morte di Pinelli, probabilmente perché è consapevole che dalla ricostruzione di quell’evento può dipendere una diversa lettura dei fattori che innescarono a sinistra la lotta armata negli anni successivi.
Se nel caso di Giordana l’impianto ideologico appare omogeneo e raccordato con altri suoi film, Maledetti vi amerò (1980), La caduta degli angeli ribelli(1981) e La meglio gioventù (2003), diverso sembra il caso di Diaz. Vicari, infatti, ricostruisce con precisione le violenze e gli abusi, ne evidenzia la continuità nel tempo, l’ampio coinvolgimento di membri di forze dell’ordine, la loro platealità e non omette di mostrare fatti gravi, come la simulazione di aggressioni a poliziotti e la costruzione di false prove ai danni dei manifestanti realizzate dalle stesse forze dell’ordine. Ma non compie il passo conseguente ovvero ammettere, o quantomeno ipotizzare, l’esistenza di un piano preordinato che leghi tutti questi eventi. E non si limita ad omettere tale spiegazione, ma avvalora l’ipotesi che le violenze della Diaz e della Bolzaneto possano essere l’esito di intemperanze dei singoli operatori dell’ordine, sfogate collettivamente. Al più concede l’ipotesi che qualcuno possa aver previsto tali intemperanze e non le abbia impedite. Probabilmente anche qui occorre ricercare nelle esigenze della produzione le cause di questa inverosimile scelta di sceneggiatura che sposta molto verso la base operativa le responsabilità che, invece, sembrano essere ben più in alto nella catena di comando di Genova 2001.
Sarebbe confortante credere che Vicari possa aver svolto lo stesso ragionamento che fece Togliatti in merito al film Le mani sulla città (1963). Per quel film Rosi aveva scelto come attore protagonista il consigliere comunale comunista Carlo Fermariello, il quale avrebbe dovuto interpretare il ruolo di un consigliere dell’opposizione di sinistra che combatteva contro la speculazione edilizia messa in atto dalla destra, stringendo un’alleanza con la parte più avanzata del centro, rappresentando, dunque, la posizione di Rosi a favore delle alleanze riformiste di centrosinistra. Stante la contrarietà al centrosinistra da parte del PCI, il consigliere si consultò con Togliatti per decidere se accettare la parte. Togliatti acconsentì in quanto riteneva che gli spettatori avrebbero presto dimenticato a quale formula politica faceva riferimento il politico del film ma avrebbero, invece, conservato il ricordo di un comunista che si batteva contro la corruzione. E certamente aveva ragione.
Allo stesso modo, del film di Vicari si spera che la gente tralasci le spiegazioni offerte ma ricordi a lungo la gravità di quel che accadde in quei giorni di Luglio del 2001, almeno fino a quando non sarà fatta giustizia.
Pasquale D’Aiello