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‘Seven Winters in Tehran’, di verità si muore. Intervista a Steffi Niederzoll, vincitrice del Biografilm

La regista tedesca racconta il toccante documentario premiato prima alla Berlinale e poi al noto festival bolognese, sulla storia di una donna ingiustamente condannata a morte in Iran

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Seven winters in tehran
Seven Winters in Tehran, Reyhaneh sorridente in immagini di archivio

Seven Winters in Tehran, Reyhaneh sorridente in immagini di archivio

Gli occhi sono spesso lucidi; la voce tende a spezzarsi. Quando Steffi Niederzoll, fresca vincitrice del Biografilm col toccante documentario Seven Winters in Tehran, mi racconta diffusamente l’esperienza umana e professionale delle riprese del film, affiora una commozione perpetua. “È stata una tale sorpresa vincere questo premio”, spiega l’artista tedesca, qui al debutto dietro la macchina da presa. “Mi è arrivata la notizia alle 5 del mattino. Certo, non potevano telefonarmi a quell’ora! Mi hanno mandato una mail. Alle 5, di domenica mattina: il mio miglior risveglio da molto tempo”.

È una storia, quella di Seven Winters in Tehran, nota forse più agli attivisti che alle cronache. Il 25 ottobre del 2014, dopo sette anni di sofferta detenzione e di lotta per la verità, Reyhaneh Jabbari, giovane iraniana, viene giustiziata secondo la legge nazionale della “vendetta di sangue”. Vittima di un tentativo di aggressione sessuale, la donna è accusata di aver calunniato l’aggressore. Potrebbe invocare la grazia della famiglia dell’uomo che l’ha insidiata, se ammettesse di aver mentito; incrollabile, preferisce difendere la propria innocenza. Per la sua, di famiglia, è un uragano. La madre Shole fa di tutto per ottenere la liberazione della figlia. La lotta individuale, mossa dall’amore materno, diventa battaglia politica e umanitaria.

Con materiali – facile immaginarlo – faticosamente fatti uscire  dall’Iran e le commosse interviste ai familiari, la regista Steffi Niederzoll ricompone una storia di dolore e speranza, usando il cinema per colmare i vuoti, amplificare le voci, contenere l’emozionata rivendicazione. Già premiato alla Berlinale 2023 (sezione Perspektive Deutsches Kino e Peace Film Prize), Seven Winters in Tehran ha vinto il premio come miglior film nel concorso internazionale del Biografilm (19esima edizione). Ora non resta che aspettarne la distribuzione italiana di I Wonder. Abbiamo intervistato in anteprima la regista.

Il trailer di Seven Winters in Tehran

Qui la recensione di Rita Andreetti.

L’intervista: Steffi Niederzoll racconta Seven Winters in Tehran

UNA FAMIGLIA SOTTO CONDANNA

All’inizio di Seven Winters in Tehran, una scritta ci avvisa che il film è stato realizzato con del materiale contrabbandato (“smuggled material”), viste le difficoltà di far uscire certe riprese video dall’Iran. Prima di parlare del materiale, però, vorrei chiederti di ciò che lo completa, vale a dire delle interviste fatte con i familiari di Reyhaneh. La loro presenza è determinante ed hai fortemente voluto attribuire loro un ruolo centrale nel tuo documentario. Che valore attribuisci alla loro testimonianza?

La storia di Reyhaneh mi ha profondamente toccata e nel raccontarla non potevo fare a meno di raccontare anche la storia della sua famiglia. Era inevitabile. Trascorrendo del tempo con i familiari, ho capito cosa significhi davvero la pena di morte. Si tratta di un orribile sistema di ingiustizia che ricade su un individuo, in questo caso Reyhaneh, ma soprattutto vuol dire che tutta la famiglia viene coinvolta e che fino alla fine dei loro giorni tutti i parenti dovranno fare i conti con questa ingiustizia. Per me, quindi, era importante mostrare il dolore di un’intera famiglia, tanto più nel caso di Reyhaneh, che ha una famiglia così numerosa.

In sette anni e mezzo, i familiari della giovane non si sono persi nemmeno una delle visite messe a disposizione dal carcere. La madre è mancata solo due volte, una perché era a Medjugorje a pregare per la figlia, l’altra perché era così malata che non riusciva a muoversi.  È questa presenza costante ad aver dato forza a Reyhaneh. In sintesi, volevo dimostrare che una condanna a morte non colpisce una sola persona, bensì un intero nucleo familiare e, a largo raggio, l’intera società.

MESSAGGI IN CODICE

Non ti chiederò come tu abbia fatto a ottenere certo materiale esclusivo, ad esempio alcune immagini del carcere vuoto dall’interno, oppure stralci di confronti con ufficiali iraniani. Hai già spiegato altrove che alcune informazioni potrebbero mettere in pericolo le persone coinvolte. Mi interessa, tuttavia, capire quale sia stato il tuo compito principale da regista nel dare forma a questo materiale. Punto di partenza: la massa grezza e variegata dei video; punto di arrivo: il film fatto e finito, così ben assemblato da venire premiato alla Berlinale e al Biografilm. E in mezzo?

Domanda interessante, ma è difficile indicare il mio compito principale, perché come sai nella realizzazione di un film sono sempre coinvolte molte persone. Vien da dire che il compito principale del regista sia, per l’appunto, dirigere quelle persone. In qualche modo, mi sento la madre di questo film. Mi sono presa cura del fatto che tutti stessero bene; in tanti si sono dovuti fidare di me. Ho dovuto scoprire letteralmente quale fosse la storia. Ho scavato a lungo nel materiale, perché non si trattava di video pensati per essere montati in un film. Mi sono vista obbligata a scomodare tante persone per chiedere di mettere il materiale su dischi rigidi. Poi, naturalmente, ho organizzato tutto, e non avrei potuto farlo senza l’aiuto della mia montatrice (Nicole Kortlüke, n.d.R.), che mi ha accompagnato per l’intero processo filmico.

A quanto ammontava la bozza iniziale in termini di durata?

Era di otto ore. Ho decodificato e ridotto all’essenziale. Quando parlo di decodifica, intendo dire che avevo bisogno di capire il modo diverso in cui un iraniano concepisse e interpretasse quel materiale e coglierne l’essenza. Il tutto, con un’ovvia lacuna: non ho mai incontrato la protagonista, l’ho conosciuta solo attraverso la voce, le lettere, i diari.

A GHOST STORY

Ecco, Seven Winters in Tehran, pur così ricco di materiale inedito, è un film in assenza: Reyhaneh era stata giustiziata nel 2014. Come si crea un linguaggio visivo in questo caso, diversamente da quando si effettuano riprese documentario incollandosi al protagonista e immergendosi nel suo ambiente?

Inizialmente pensavo a un film con una componente più astratta, di cui resta traccia la presenza degli spazi vuoti della casa in cui avviene lo stupro lamentato da Reyhaneh e del secondo carcere in cui viene rinchiusa. Avevo persino valutato di aumentare questo grado di astrazione. Per certi versi, sarebbe stato sensato: sono una tedesca che gira un film in Iran. Sono infatti partita con un modello molto astratto degli spazi. Alla fine, però ho avvertito l’esigenza di essere dentro la realtà, vicino ad essa.

FINAL CUT

Ci sono delle scene, in effetti, che ci portano alla dimensione materiale della vita di Reyhaneh in carcere, al furore delle proteste, alla disperazione della madre e a tanto altro del cuore pulsante del reale. C’è stato qualche momento, nell’analisi e decodifica dei materiali, in cui questo vivo sentimento del reale ti ha impressionato con qualcosa di profondamente scioccante? E ti è dispiaciuto, per contro, dover escludere qualcosa in particolare di questo materiale?

In effetti avevo del materiale molto più violento, che ho pure cercato, inizialmente, di includere nel film. Ben presto, però, ho deciso che non potevo farlo perché penso che sia un limite per il pubblico nel dover fronteggiare aspetti anche brutali della realtà. Penso che un documentarista debba lavorare con dignità. Sono io stesso a rendermi conto di quando un documentario diventa folle, eccessivo. Ho cercato di fare un film che fosse rispettoso del dolore delle persone.

Ti riferisci al dolore della famiglia di Reyhaneh?

Non solo. Ho raccolto storie davvero pazzesche di stupro, violenza sessuale, tortura. C’era anche una scena al funerale di Reyhaneh che avrebbe oltrepassato il limite dello stress e che quindi ho deciso di escluderla dal montaggio finale. Ciò che mi ha colpito di più, in fase di realizzazione del film è stato il senso di impotenza della famiglia di fronte alla violazione dei diritti umani. Anche Reyhaneh aveva cominciato a lavorare su questo, aveva cominciato a perdonare. Ma non è solo la sua vicenda ad avermi impressionato. Ti assicuro che mi sono imbattuta in tante piccole storie di cui non ipotizzavo nemmeno l’esistenza e che nemmeno ho avuto la possibilità di approfondire davvero. Da cineastA, non posso che concentrarmi su una storia alla volta. E in questa storia, l’umanità di Reyhaneh è stata davvero di ispirazione. Era davvero una grande persona.

SPAZI VUOTI

A proposito del fatto che Reyhaneh sia solo evocata dalle immagini, dai video e dalla voce, ma che non fosse in tempo reale parte del racconto filmico, vorrei chiederti di approfondire l’uso degli spazi vuoti di cui parlavamo poc’anzi. Sono scene molto evocative, con long take e carrellate lente, in cui si avverte l’assenza fisica ma anche l’eco drammatica degli eventi.

Naturalmente capita a molti documentaristi di dover trattare questo senso di vuoto, ossia di non poter fruire della presenza fisica dei loro protagonisti. Ci sono vari modi per risolvere la questione. Alcuni preferiscono rimettere in scena i fatti attraverso degli interpreti, altri utilizzano l’animazione o molte altre tecniche. Per me, comunque, nulla di tutto ciò funzionava, specialmente quando bisognava raccontare la molestia sessuale subita da Reyhaneh.

Seven Wintes in Tehran, immagine del carcere vuoto con i soli letti

Seven Wintes in Tehran, immagine del carcere vuoto con i soli letti delle detenute. Courtesy of Made in Germany

Ho letto i rapporti della polizia, naturalmente, ma volevo fare in modo che emergesse il punto di vista di Reyhaneh. Doveva essere la sua voce a parlare, ma la nostra immaginazione a completare i fatti, che nessuno può davvero sapere. Affinché ciò avvenisse, avevo bisogno di girare quelle scene negli spazi vuoti dell’appartamento. Era un po’ come restituirle uno spazio che non ha mai avuto e fare in modo che la sua voce potesse risuonare.

L’altro spazio su cui hai lavorato in questo modo, filmandolo nella propria desolazione, è quello della prigione femminile di Shahr-e Rey, dove Reyhaneh finirà i propri giorni.

Anche questo era uno spazio in cui non potevamo entrare. Nella mia ricerca, tuttavia, ho scoperto una cosa che nemmeno la famiglia sapeva, ossia che nel carcere non ci sono finestre. I familiari non potevano saperlo, perché vedevano Reyhaneh sempre e solo in occasione delle visite, quindi nell’ala in cui le finestre ci sono. Nel parlare con le prigioniere ho capito quanto fosse difficile vivere lì. È impressionante pensare che Reyhaneh sia stata tre anni e mezzo in un posto senza finestre, senza aria condizionata, senza riscaldamento.

Volevo mostrare questo spazio allo spettatore, e nell’impossibilità di entrarvi mi si suggeriva di effettuare una ricostruzione in 3D. Io stimavo, invece, che l’umore dell’ambiente potesse emergere solo riprendendo a mano, e non ricostruendo a computer. È solo così che vederlo diventa davvero doloroso.

UNA PER TUTTE

Parlavamo di come fosse importante restituire una voce a Reyhaneh. In vita, la donna è stata coraggiosa a difendere i propri principi. C’è un momento della vicenda in cui avrebbe potuto invocare il perdono semplicemente ammettendo di non essere stata vittima di un’aggressione sessuale. La madre Shole vorrebbe che ritrattasse per ottenere la grazia dalla famiglia accusante, ma la giovane è inflessibile e si proclama innocente. Questo mi fa pensare che sia la figlia ad insegnare qualcosa alla madre, e che sia la giovane generazione a trainare la vecchia generazione nella battaglia per i diritti umani. Oggi Shole si batte per i diritti di donne calpestate nella propria dignità come sua figlia. Hai notato questo ruolo trainante dell’ultima generazione?

È esattamente così e penso di averlo enfatizzato molto nel film. Normalmente è una madre che insegna qualcosa a una figlia, mentre in questo caso la madre impara dalla figlia. Impara qualcosa che oggi la porta a continuare la battaglia di Reyhaneh. Oggi Shole è la voce di Reyhaneh, proprio come in carcere Reyhaneh era stata la voce di tante compagne di detenzione. Nell’episodio di cui parli, cioè quello in cui la madre avrebbe voluto che la figlia ritrattasse l’accusa pur di farsi perdonare, Reyhaneh ha risposto: “non puoi lottare solo per me. Se lotti per me, lotti per tutte”. Uscire di prigione mentre tante donne sono costrette a prolungare la propria sofferenza in carcere sarebbe egoistico e varrebbe come una sconfitta.

Seven Winters in Tehran, la madre Shole durante un'intervista

Seven Winters in Tehran, è Shole, la madre, a proseguire la battaglia della figlia. Courtesy of Made in Germany

Quando ci penso, mi viene la pelle d’oca: quanto grande devi essere dal punto di vista umano, nei panni di Reyhaneh, per fare un ragionamento di questo tipo? Questa congiuntura per me costituisce il cuore del film. Quello di Reyhaneh è un atto eroico, che si mette dalla parte della verità e della dignità, rinunciando alla propria salvezza: è il momento in cui una vicenda personale diventa politica. Ovviamente capisco benissimo la madre: vorrebbe che la figlia facesse qualunque cosa pur di sopravvivere.

Anche la madre stessa farebbe qualsiasi cosa: chiede all’accusatore di prendere lei, e non la figlia.

Shole avrebbe fatto di tutto per salvare Reyhaneh. Le avrebbero potuto chiedere di tenersi in equilibrio sull’alluce per due ore cantando una canzone o qualunque altra cosa le avessero chiesto. Non tutti hanno la forza di dire “no”.

QUANDO IL BENE NON ESISTE

A proposito della difficoltà di rifiutare, di ribellarsi, di smuovere le coscienze, mi viene in mente un film iraniano premiato con l’Orso d’oro alla Berlinale nell’edizione precedente a quella in cui è stato premiato Seven Winters in Tehran: Il male non esiste di Mohammad Rasoulof. Il primo episodio del film, volutamente piatto fino allo shock finale, raccontava di una guardia carceraria responsabile delle esecuzioni che nella vita quotidiana cercava di rimuovere l’orrore del proprio lavoro. Seven Winters in Tehran mostra tante persone che hanno lottato e lottano per giustizia e libertà, ma ti è capitato anche di incontrare vittime della “banalità del male”, indifferenti, paralizzate dal sonno della coscienza?

È interessante che tu abbia citato quell’episodio del film di Rasoulof perché io ci ho provato a parlare con alcune delle persone impiegate nelle esecuzioni. Sfortunatamente il contatto è stato interrotto precocemente, proprio come mi avevano avvisato i miei esperti di cultura iraniana. Mi avevano già detto che non avrei ottenuto collaborazione per il film. Nondimeno, Shole ci è di fatto riuscita: ha parlato con molte persone che si sono occupate di effettuare delle esecuzioni, per esempio militari. Avrei quindi potuto raccogliere anche del materiale su questo, ossia su come ci si senta e su quali pensieri passino per la testa quando si ha una mansione di questo tipo, su cosa ci si concentri, su cosa si eviti di pensare.

Ho però avuto la sensazione che si sarebbe trattato di un altro film. D’altro canto, è questo che succede quando hai a disposizione otto ore di filmati. Mi torna in mente la domanda di prima, quando mi hai chiesto quale fosse il mio compito principale da cineasta di fronte a questo materiale. Ecco, si tratta di dover scegliere una direzione e di non imboccarne un’altra, benché promettente.

“LA BATTAGLIA CONTINUA”

In Seven Winters in Tehran si alternano sentimenti diversi come in un ciclo stagionale. C’è una scena in cui Reyhaneh festeggia il proprio compleanno in carcere e afferma che si è trattato di uno dei più bei giorni della propria vita. Ce n’è un’altra in cui una delle sorelle di Reyhaneh afferma che, dopo aver visto come la giustizia funziona in Iran, ne ha tratto la conclusione che lei, al posto della sorella, si sarebbe lasciata violentare. In questa oscillazione tra speranza e disperazione, considerando anche il fatto che, come è noto, alla fine Reyhaneh viene giustiziata, cosa ritieni che prevalga, infine, per lo spettatore?

È difficile a dirsi. C’è speranza e c’è dolore. È una storia tragica, ma brilla una scintilla di ispirazione di riscatto. Per me, alla fine, c’è un messaggio positivo nel film, perché la battaglia continua, e così facendo potrebbe salvare molte persone dalla pena di morte. La madre di Reyhaneh s’impegna ancora giorno dopo giorno facendo quel che può per salvare vite umane in Iran e lottare a favore dei più vulnerabili. Dopo la proiezione del film, molte persone hanno firmato delle petizioni.

Ricordo il caso di una donna che veniva dall’Australia, senza avere radici iraniane o alcunché a che fare con l’Iran. Dopo aver visto il film è venuta da me e mi ha detto: “ora non posso far altro che ritornare al mio paese e denunciare in tribunale la persona che mi ha stuprato”. Quando un film aiuta anche solo una persona a battersi per i propri diritti, è già tanto. Dunque, non c’è solo tragedia in Seven Winters in Tehran, ma anche ispirazione alla lotta, a fare di questo mondo un posto migliore. È questa forma di incoraggiamento, per me, a dover risultare come effetto finale del film.

CINEMA PER L’EMPOWERMENT

In alcune sequenze del film si avverte questo senso di empowerment di cui parli. A un certo punto Shole raggiunge la prigione dove è detenuta la figlia perché si era sparsa la notizia di un’imminente esecuzione. Si forma un capannello di persone, che diventa poi una folla. Alle 2 di notte, finalmente, Reyhaneh chiama la madre e le dice di star bene. La massa esulta. La madre dice alla figlia: “li senti? Questa gente non ti conosce ma ti ama!”. Immagino un effetto di questo genere amplificarsi a livello mondiale dopo la visione del film. Ma se così è, mi permetto di dire, è anche per la potenza del racconto filmico. Il cinema a volte funziona meglio di una petizione. Emancipa.

Questo mi rende felice. Anch’io mi sono innamorata di Reyhaneh e della sua storia. Il cinema è un mezzo estremamente potente. A volte ci chiediamo se questo basti per cambiare davvero qualcosa, ma ti dirò: io ci credo davvero. Ho fiducia nel cinema. Anche per questo, è giusto, nel girare un film, prendersi il tempo che serve. Quando ho iniziato a lavorare a Seven Winters in Tehran, ho guardato tutto ciò che era stato trasmesso a proposito del caso di Reyhaneh – o almeno ci ho provato. C’erano diversi errori, dovuti probabilmente al fatto che ci vuole tempo per effettuare una verifica e una controverifica. Molti, evidentemente, si erano limitati a riprendere quanto scritto da altri.

Seven Winters in Tehran, Reyhaneh sorridente in immagini di archivio

Seven Winters in Tehran, Reyhaneh sorridente in immagini di archivio

Quando giri un film è diverso. Si possono dedicare anni interi a una sola storia. È vero, però, che in questo caso la storia non riguardava il mio Paese, né i materiali erano nella mia lingua, per cui l’impegno è stato doppio.

ETICA ED ESTETICA

Un documentarista non si profonde solo in un impegno di tipo informativo, bensì anche in uno sforzo estetico, consistente nel trovare la forma che esprima adeguatamente il contenuto attraverso l’arte cinematografica. A fronte di un contenuto etico così marcato, le preoccupazioni di tipo estetico rischiano tuttavia di venire sommerse. Nel tuo caso, qual è stato l’elemento determinante riguardo la ricerca sulla forma?

Sin dall’inizio per me è stato chiaro che avrei dovuto assecondare i materiali e la storia, ed è stato così. Questa, a suo modo, è già una scelta di tipo estetico. Per me, comunque, non si trattava del momento di mostrare le mie abilità di cineasta a tutto il mondo, né doveva venirne fuori qualcosa di voyeuristico. Piuttosto, era importante che ogni spettatore potesse mantenere uno spazio per pensare a ciò che è giusto o sbagliato e porsi delle domande. Non doveva essere un documentario dimostrativo, che spiegasse tutto. A volte, certo, il mio ego premeva per delle scelte particolari, ma in ogni caso il mio approccio iniziale è rimasto coerente ai miei propositi.

Penso che questo mio orientamento abbia molto a che fare con l’amore e il rispetto che porto nei confronti della famiglia di Reyhaneh, ma anche a una qualche forma di intuizione. Sono molto intuitiva nel modo di procedere. A volte, a partire da una foto, avverto di dovermici soffermare, di passare avanti o di poter tornare indietro. È anche questo che intendo per “seguire il flusso della storia”, e l’intuito mi aiuta molto.

LO SGUARDO OCCIDENTALE

La storia di Seven Winters in Tehran è potenzialmente universale: non a caso parliamo di diritti umani. Ma è un dato di fatto, si svolge a Teheran. Immaginiamo questo tipo di situazione: proponiamo ad alcuni ignari spettatori di vedere il film, senza specificare se sia stato girato da un regista iraniano oppure occidentale. Secondo te, ci si accorgerebbe del tuo sguardo “esterno”, da occidentale? Come l’avrebbe girato un cineasta iraniano? C’è un passaggio nel film in cui si ironizza sul fatto che quando il mondo occidentale si interessa all’Iran, lo fa solo per parlare di energia nucleare.

Ogni essere umano che avesse girato questo film, in qualche modo avrebbe fatto emergere il proprio punto di vista. Devo però dire che ho sentito da molti iraniani che non avrebbero mai immaginato che il film fosse realizzato da una tedesca. Molti di loro, poi, hanno tirato un sospiro di sollievo quando hanno visto che il film non li aveva esposti. Dal canto mio, non posso fare a meno di lavorare con uno sguardo da tedesca: non posso cambiare chi sono e da dove vengo. Sarà, poi, perché ho trascorso diversi anni con un partner iraniano, ma mi interessa davvero verificare cosa abbia capito io e cosa ne capisca un iraniano.

Io, per esempio, non sono riuscita a distinguere se alcuni materiali provenissero o meno da servizi segreti. A volte vedevo qualcuno e mi dicevo: “sarà di sicuro un James Bond”, e poi venivo a sapere che era un parente di Reyhaneh. Ho un modo di decodificare la realtà totalmente diverso da quello di un iraniano e mi sono davvero impegnato a capire come loro leggessero i fatti. Questo, tra l’altro, aveva anche lo scopo di evitare di irritarli in qualche modo, magari incorrendo involontariamente nell’uso di qualche stereotipo. Allo stesso tempo, non potevo fare a meno di spiegare alcuni dettagli agli spettatori del resto del mondo. Ad esempio, la storia non sarebbe decifrabile se non si alludesse al funzionamento della vendetta di sangue in Iran.

Ci sono, quindi, degli adattamenti per lo spettatore occidentale. Potremmo dire, degli elementi di contestualizzazione culturale.

Erano necessari. Ho realizzato il film prima dell’inizio delle rivolte in Iran. Avevo appena finito il montaggio quando cominciarono le prime proteste. Parlando con alcuni miei connazionali, mi sono reso conto di come a volte confondano l’Arabia Saudita con l’Iran. Non sanno, ad esempio, che in Iran una donna può guidare o può diventare professoressa. Spesso si soffermano solo sulle ombre e sugli stereotipi. Nel considerare la famiglia di Reyhaneh, alcuni hanno creduto che si trattasse di una famiglia particolarmente aperta, ma non è così: è una famiglia assolutamente nella media.

IRAN PARTE SECONDA

Mi chiedo spesso come si senta un documentarista alla fine di un progetto così impegnativo, tale da assorbire profondamente le energie emozionali. Non deve essere sempre facile resettare un’esperienza e rimettersi al lavoro su altre idee. Tu su cosa stai lavorando adesso?

Avrei due progetti, che in realtà non sarebbero nemmeno nuovi, e in uno dei due lavoro di nuovo con degli iraniani. Uno è più di finzione, l’altro ibrido tra finzione e documentario. Uno ha a che fare proprio con la famiglia di Reyhaneh, per cui ho già cominciato a prendere appunti durante la realizzazione di Seven Winters in Tehran. Mi ero messa in testa di volerli proteggere da tutto il male che avevano dovuto soffrire in questi anni. Parlando con loro, è venuto fuori che non solo in Germania, bensì in tutta Europa esiste la possibilità di denunciare crimini contro l’umanità. Ho chiesto loro se a partire da questo spunto potessi creare un’opera di finzione e ne sono stati entusiasti. Abbiamo avuto tante conversazioni divertenti a pranzo o a cena insieme, quindi non c’era nessun disagio nel farne dei personaggi.

Al momento, quindi, sto valutando questa idea, ma a volte mi chiedo se sia davvero il caso di fare un film politico. Si è sempre esposti ad attacchi: c’è gente che non vuole che esistano nemmeno film del genere. Mi ci vorrà del tempo per lavorarci. Devo fare in modo di girare scene con iraniani in Germania e in tedesco, diversamente con la lingua diventerebbe tutto più problematico.

Grazie per l’intervista.

Grazie a te. Sono sempre contenta di parlare di Seven Winters in Tehran.

Seven Winters in Tehran

  • Anno: 2023
  • Durata: 97
  • Distribuzione: I Wonder Pictures
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Germania, Francia
  • Regia: Steffi Niederzoll