Taxidrivers Magazine

Conversazioni con Danilo Fatur

Incursioni nella cultura metropolitana. Rubrica a cura di MASTER BLASTER

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La prima volta che vidi Fatur da solista era il 26 Maggio dell’anno del Signore 2000 al CSOA Ex Snia Viscosa con i Faturismo.

Intendiamoci, questa precisione non è figlia di una memoria elefantiaca: semplicemente, data e luogo sono riportati su un manifesto che rubai allora dall’androne della facoltà di Lettere, e che oggi, come un trofeo posto a memoria delle  scelleratezze di gioventù, tappezza il ”salone buono” di casa mia.

Della serata, ad essere onesti, ho ricordi molto confusi, per nulla lineari e caratterizzati da un onirismo felliniano. Quella sera era, infatti, una di “quelle sere” risalenti al periodo della mia vita in cui non ero astemio. Ossia ero, come quasi tutte le altre notti dell’epoca,  ubriaco fradicio.

Non lo nego, la prima impressione fu deludente. Come era diverso dalla memoria collettiva e dai filmati dei CCCP  quello che una volta era l’Artista del Popolo della band che sicuramente più di tutte ha influenzato la mia adolescenza: taciturno,  in un angolo, enormemente ingrassato. Sembrava lontanissimo dal guizzante archetipo animalesco di muscoli, sudore e anfetamine che, insieme alle musiche di Zamboni e alle parole del Ferretti, formava la micidiale combo audiovisiva capace di gelare e inchiodare centinaia di corpi sotto i palchi e rendere altrettante menti “fedeli alla linea”!

Io e il mio socio andammo a conoscerlo, titubanti, più per assicurarci che fosse realmente Fatur che per  altro; furono due parole di cortesia di cui ricordo poco o nulla, uno scatto con la macchinetta usa e getta (all’epoca i cellulari con camera erano ancora un rarità) e ci infilammo nel salone,  pronti a vedere un concerto per pochi intimi da cui non ci aspettavamo niente.

Quello che accadde dopo non segue un filo logico, potrei definirlo più un collage di immagini che andarono violentemente a sovrapporsi l’una sull’altra, aiutate ovviamente dai suoni e dalla – non trascurabile – quantità di vodka che mi portavo abitualmente a spasso nelle arterie, ma fu comunque una sorpresa.

Eccolo lì, incurante del numero esiguo di spettatori, propaggine di carne dei pezzi di Trabant  che portava addosso come se fosse una versione di Terminator girata da Ėjzenštejn in perfetto stile “realismo socialista”. Da sotto i pezzi di plastica e metallo guizzava di nuovo la bestia, a cui ora, forte dell’esperienza,  bastavano pochi passi per dominare il palco, muovendosi come se tutta quella ferraglia che aveva abbinato come una vestaglia a guêpière e calze a rete non esistesse. Il suono che lo accompagnava era freddo, diverso, eppure affine per DNA a quello dei CCCP. La band che suonava  vestita da metalmeccanici è distante, alienata, lontana anni luce, su un altro palco, in un altro concerto. Capisco le parole con cui Zamboni nel documentario Tempi moderni, forti, nuovi e interessanti definì Fatur: “lui è la vita vera …. la vita animale”.

Su quel palco c’era una vista che ti paralizzava come un diretto in faccia, ma si deve arrivare alle parole, quelle di Trabantpunk, per ricevere quel destro-sinistro che ti manda a tappeto: sono gelide, fonemi e concetti come pistoni che ti schiacciano le speranze, senza lasciare scampo alle illusioni.

 “Radio Moskow dice che: no il partito più non c’è

Il ritornello mi entrò subito in testa, era quello che sentivo: disorientamento, ansia di mandare indietro le lancette della storia, un senso di inadeguatezza che mi associava a tanti altri…tutto questo era lì, nel testo e nella musica di una canzone, sul palco di uno scorcio di inizio millennio che ancora non aveva visto Genova, il G8 e Piazza Alimonda.

L’ex capannone industriale dello Snia quella sera era una cattedrale e Fatur era il macchinario che cantava ritmico e freddo l’inno dei lavoratori. Quella sera decisi che Danilo Fatur , se non il più colto, il più tecnicamente preparato, era di sicuro il più coerente e il personaggio giusto per incarnare lo spirito e la memoria dei CCCP.

Aprile 2012, the present day, la camera delle bestemmie (il mio studio in cima alle scale), colonna sonora : Ground control  to major Tom di David Bowie. Sullo schermo del mio pc galleggia una lettera di Fatur. Precedentemente gli avevo scritto chiedendogli se nel mio prossimo articolo avrei potuto parlare di lui e dei due successivi incontri in cui ebbi modo di conoscerlo meglio. Di norma non sono così cortese, ma Danilo, per il suo lavoro e per la persona che è, ha guadagnato il mio rispetto e mi sono ripromesso di non scrivere nulla senza prima aver avuto il suo consenso. La risposta è affermativa, il pezzo si può scrivere. Inoltre per correttezza devo dire che ho integrato vuoti di memoria,  domande non fatte all’epoca e riordinato discorsi avvenuti tra uno e tre anni fa con qualche scambio di mail. E come in un film di Sergio Leone riprendo la narrazione con un flashback che mi riporta al  mio secondo incontro con “l’artista del popolo”.

Era il dicembre 2009, nel backstage di un concerto che avevo appena finito di fare al C.S. Bencinvenga, un mio buon conoscente mi scuote dallo stato catatonico in cui cado abitualmente dopo uno spettacolo, chiedendomi se fossi stato disponibile ad aprire una serata a Fatur e al suo nuovo progetto : “socialismo e barbarie”. Lì per lì, pensai a una frase buttata come tante altre, per far conversazione, così come si fa senza pensarci molto e senza pensarci molto risposi affermativamente, salvo dimenticarmene immediatamente.

Quando un paio di mesi dopo il mio amico mi telefonò per confermarmi la data non so se fu più l’imbarazzo per non avergli prestato troppa fede o l’emozione per un sogno che si realizza a pervadermi. Parlo di emozione, per evitare di esplicitare subito, senza remore, che si trattava in realtà di fottuta paura! I giorni passarono mentre la mia agitazione cresceva esponenzialmente mano a mano che si avvicinava la data prestabilita, che fortunatamente arrivò prima dell’infarto che sicuramente mi sarebbe venuto se avessi dovuto aspettare qualche settimana in più. Intendiamoci, di cose strane ne ho viste e di esperienze ne ho fatte, quindi non mi definirei una persona eccessivamente emotiva  (non più della norma comunque), ma sta di fatto che stavo per incontrare uno dei rappresentanti della mia band di culto, della colonna sonora con cui avevo pianto, mi ero innamorato, mi ero caricato prima di una manifestazione o consolato da una delusione fin dalla tenera età di sedici anni. E appunto quel pomeriggio ero emozionato come un sedicenne. Passeggiando nervosamente su e giù, accendendo una sigaretta dopo l’altra – l’ultima delle quali, quasi mi strozzò, andandomi per traverso quando Ander, l’organizzatore della serata entrò nella stanza annunciando che Danilo Fatur era con noi!

Stavolta nessuna sorpresa, nessuna delusione, era identico a nove anni prima, mole imponente e volto semplice che ricorda vagamente quello di Stakanov sorridente nelle foto di propaganda Sovietica. Con mia sorpresa ci riconosce ed è di una cordialità insospettata che potrei definire, per essere banale,  tipica della gente dell’Emilia Rossa, quella delle feste dell’Unità, dei grossi complessi industriali, ma anche dei paesini isolati e delle cooperative agricole e, in effetti, mi dice che fuori dal palco per vivere lui fa anche il boscaiolo. Lo assalgo con una valanga di domande, mi stupisce ancora oggi come abbia fatto a non mandarmi subito affanculo, tanto mi rendo conto di essere stato asfissiante. Rimane sorpreso dal fatto che io conosca i Fatur and Fax, il suo primo gruppo post-CCCP, un cult per pochi (ma buoni) – perché giuro che quel poco che all’epoca riuscii ad ascoltare su una musicassetta rubata da ubriaco  a qualche altro ubriacone, magari ad una festa a base di alcool e benzodiazepine, mi piacque veramente molto.

Specie la canzone che ammiccava a un qualche nazi barman da qualche parte … probabilmente Berlino. A pensarci oggi, mi pento di non avergli chiesto dove trovare quei sui primi lavori da solista, magari su un bel vinile per arricchire la mia collezione.

Ma il pomeriggio scivola veloce, tra il mio batterista, di cui si erano perse le tracce, e la mia curiosità che a quel punto serviva anche da valvola per allentare la tensione prima del concerto. Sorride quando gli propino la sua “disciplina del nulla”, ripetuta a memoria dal succitato “tempi moderni”, che in quasi vent’anni avrò visto (e vedo ancora!) non so quante volte, solo che parlando con lui mi chiedo se non stessi cominciando a capirla veramente solamente in quel momento.

In effetti se dovessi paragonare Danilo ad un quadro, l’unico che ora mi sembra veramente calzante è Atelier operaio di Korzev, dove è rappresentata l’emancipazione dell’operaio, dallo stato di materia umana grezza. Grazie all’arte e alla presa di coscienza di sè, nobilita il suo lavoro, dal semplice produrre al creare, ed è proprio lì che, secondo me, si incastra il ganglio centrale della “disciplina del nulla”. Lui stesso inizia con una domanda che mi spiazza più per la semplicità e la serietà con cui la pone che non per la risposta che, in realtà, almeno in parte conoscevo già: “Ma tu lo sai che io ero fascista vero?… cioè che ho anche votato MSI?”. E in effetti le tendenze parafasciste della gioventù di Fatur pre-CCCP non sono un mistero così inaccessibile, quello che stupisce è il percorso, fatto di curiosità e sperimentazione che ha portato questo spogliarellista, sicuramente proveniente dai ceti subalterni (un proletario che sbaglia, avrebbe detto Gramsci) a diventare quello che passerà alla storia come l’artista del popolo.

Già perché lui comincia con genuina convinzione a guardare agli scarti industriali, alla ferraglia inutile, al surplus di produzione, superato dalla creazione di nuovi bisogni sempre indotti, come ad un tesoro a cui dare una seconda possibilità. Recupera ciò che è in disuso e obsoleto, merci che nessuno più vuole e che quindi vengono dimenticate come se anche loro non facessero più parte di questo mondo che le ha create e dà loro un nuovo utilizzo, usando il proprio corpo come una tela, come uno spazio vuoto in cui costruire un nuovo immaginario in cui quegli oggetti prendono vita, divenendo momentaneamente parte del suo essere. Un cambio d’uso e destinazione a costo zero, una ricollocazione che annulla gli esuberi del feticismo delle merci; tutto è ridotto all’essenziale, marchio di fabbrica della produzione sovietica. Niente orpelli barocchi, niente ghirigori per piacere al pubblico: semplicità di linee, resistenza dei materiali per sostenere un pensiero che sia rivoluzionario nei fatti, anziché nelle forme. Lo si trova nei suoi concerti con i CCCP, negli spettacoli teatrali con Annarella Giudici e infine nella musica dei Faturismo: suoni essenziali, spogliati di tutti gli arrangiamenti fino all’osso, testi rudi fatti di parole inchiodate una sull’altra senza nessun rispetto per metrica e grammatica. Un flusso di concetti che sembra scritto dall’ironia e dall’autoironia di un Majakovskij  sotto acido come in Cosmic punk e Madame Mercedes o nell’amarezza profonda che graffia sotto lo scherzo di Trabantpunk. Anzi , riguardo a quest’ultima annuisce serio quando gli dico che la prima volta che l’ho sentita ho pensato che fosse il giusto requiem per i CCCP.

Fatur non ti sta a spiegare le cose: o lo capisci o lo fraintendi, la scelta è semplice. La bontà della sua presa di coscienza, del suo percorso artistico, politico e umano la riassume in una sua semplice  considerazione “Io sono l’unico vero proletario dei CCCP, l’unico che non ha fatto i soldi”. Ed è anche l’unico, aggiungo io, a non essersi riciclato nei salotti buoni della televisione, l’unico che ha continuato a fare la sua arte fedele al suo modo di sentire, senza il bisogno di giustificarsi con nessuno. Ed eccolo che mi ritorna davanti agli occhi “atelier operaio” : il proletario che si fa intellettuale con le proprie forze, con la sua strada e, perché no, con i suoi errori. Non l’intellettuale che gioca a farsi operaio ben sapendo di poter smettere quando vuole per poter tornare alla comodità della sua poltrona.

Ovvio che un carattere così è difficile da interpretare, io stesso sono sicuro di non averlo capito che in minima parte, ma in fondo è questa anche la disciplina del nulla: prendi ciò che trovi e riutilizza quello che ti serve. Mi racconta divertito di quando i suoi concerti finivano in rissa, a volte perché venivano i fascisti, mentre in altre era invece colpito da “fuoco amico”. Sghignazzo di gusto sentendo di come una volta fu contestato, con tiro di polenta e scazzottata finale in pieno stile Bud Spencer e Terence Hill, da un gruppo di femministe che accusavano di “machismo” proprio lui, che viene dalla cerchia di Helena Veleno! Non lo sa, ma, per esperienza diretta, so benissimo cosa vuol dire non essere capiti da qualcuno che sta sotto il palco, imbacuccato nei suoi pregiudizi, magari fabbricati esclusivamente sul sentito dire.

Ormai lo spettacolo incombe, finalmente il mio batterista è stato ritrovato, in compenso tecnicamente tutto ciò che può andare storto ci va storto e manco a dirlo, quella sera suoniamo da schifo. I Socialismo e Barbarie invece sono grandiosi, cavalcano bene la musica dei CCCP, ma buona parte del cuore dei presenti è per Danilo. Il vecchio stregone ha ancora tutta la sua magia e, nonostante l’abbondante cena a cui ho assistito nei camerini, domina l’energia nella sala con la stessa facilità con cui gioca con l’acciaio che si porta dietro.

Quando ci salutammo, a fine concerto, io ero da una parte un po’ amareggiato da tutti gli intoppi che avevano rovinato il live che attendevo da una vita, ma dall’altra toccavo le stelle per aver conosciuto uno dei pochi miti che non mi hanno deluso. Mi domandai se lo avrei più rivisto.

L’occasione arrivò inaspettata un anno dopo. I Socialismo e Barbarie suonavano al Qube e io ero al mio ultimo giorno di turno in negozio. Dopo aver chiuso prendo la Pontina, passo a prendere un paio di amici ed eccoci arrivati. Anche stavolta l’esibizione è magistrale e, a parte un piccolo diverbio con dei fascistelli coatti che però si risolve in fretta, me lo godo a pieno. Provo a fare un saluto nel backstage, ma il granitico buttafuori si interpone tra me e i camerini guardandomi in cagnesco, fortunatamente i ragazzi del gruppo mi riconoscono e mi invitano ad entrare.

Quanto segue è una vera festa, chiacchiere in libertà e un po’ di quell’ebbrezza che male non può mai fare. Fatur dimostra di avere un buon rapporto con la sua età e di non essere solo una maschera da palcoscenico: si mescola volentieri alla gente, esce fuori, balla, beve, scambia parole con qualche bella ragazza che insiste per una foto con lui, pazientemente cede, ma si capisce che quello che vuole alla fine , non è essere considerato una rockstar ma divertirsi, tanto sopra quanto sotto il palco.

In fondo a voler dare una libera interpretazione alla ‘disciplina del nulla’ viene da chiedersi: c’è davvero una differenza tra le due cose? Il locale si svuota piano piano, come se la serata non volesse mai davvero finire, però ahimè si sa, talvolta il tempo non è affatto un gentiluomo e l’orologio indica inesorabilmente che ormai “si è fatta una certa”. Mi offro di riaccompagnarlo e sotto l’albergo c’è ancora tempo per due parole. Stavolta sono i ricordi ad avere la meglio, si parla dei CCCP, da un punto di vista umano però.

Danilo, l’animale totalmente incontrollabile di quello strano collettivo, a dispetto di alcuni altri che hanno avuto  fretta di dimenticare quell’esperienza per proporsi in una veste nuova e più rispettabile, non dimentica, non rinnega e non ha rancori. Ricorda l’episodio un po’ surreale di quando si esibirono in URSS e gli agenti in divisa incaricati della pubblica sicurezza scattarono sull’attenti in un perfetto saluto militare quando sentirono le note di I LIBLIJU SSSR, o la precisione maniacale di Ferretti nel cercare di dare un ordine al microcosmo che pulsava nei live dei CCCP.

Scopro uno strano ibrido fatto di spontaneismo, poesia, rigido conformismo da show business nella scelta dei costumi, anarchica genialità lasciata teatralmente andare a briglia sciolta. Scopro un coacervo di persone diverse, niente affatto perfette, ma tenute insieme da qualche misteriosa forza capace di annullare le reciproche divergenze per creare un qualcosa di irripetibile … “dalla morte del compagno Togliatti a oggi, fino al raggiungimento della maggiore età”. Nel tono e nella voce non scorgo rimpianti o recriminazioni, nostalgia forse per un periodo così intenso che probabilmente il barista-stripper del Tuwat di Carpi non si sarebbe mai aspettato. Un periodo che gli diede  quegli strumenti per affinare un pensiero che lo ha portato a percorrere quella via, che, magari più in ombra di un tempo, ancora coerentemente continua. Certamente della gratitudine e dell’affetto per quelle persone che camminarono con lui, anche se oggi sono cambiate, alcune anche molto, tali da essere divenute l’antitesi di ciò che hanno rappresentato, alcune per ragioni che forse non è opportuno rivelare in questa sede.

Si, questo strano romagnolo in fondo ha capito molto della vita e delle cose che vale la pena di fare per riempirla. Continua a mostrare il suo corpo, nonostante gli anni, per dare vita, vita vera e degna di essere vissuta agli oggetti di consumo figli del libero mercato. Continua a comporre la sua musica, ignorato dalle grandi major e dagli speciali di MTV. Sarà per questo che trovo gratificante ascoltare il suo ultimo lavoro: Accelerazione, mentre la prospettiva di un nuovo disco dei PGR mi inquieta e so già che preferirò non ascoltarlo.

L’alba è ormai cominciata da un pezzo, ci salutiamo come fanno due vecchi amici, non ho più l’idea di trovarmi di fronte un personaggio mitico, ma quella sera attraverso le parole di Danilo ho scoperto di essere ancora fedele alla linea e molto legato ai CCCP, specie ora che “la linea non c’è” e che in fondo, al di là del presente, tutti questi anni non sono stati un inganno.

Sicuramente quando ricapiteranno dalle parti di Roma non mancherò di portare il mio saluto, magari mi piacerebbe risuonarci insieme, facendo preventivamente una buona scorta di amuleti.

Lo vedo allontanarsi e riaccendo il motore, colonna sonora in autoradio:  Satisfaction dei Rolling Stones.

Buona fortuna giovane Fatur … Continue le combat, c’èst seulement  le debut!

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