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Sundance London, 26 Aprile: Open Conference con Robert Redford, “Under African Skies”, “The House I Live”

Il Direttore del Sundance Film Festival John Cooper, il Fondatore e Presidente del Sundance Institute Robert Redford e il Direttore Finanziario di AEG Europe Alex Hill hanno presieduto la conferenza stampa d’apertura del Sundance London – Film and Music Festival, prima esperienza europea del Sundance Film Festival

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Il Direttore del Sundance Film Festival John Cooper, il Fondatore e Presidente del Sundance Institute Robert Redford e il Direttore Finanziario di AEG Europe Alex Hill hanno presieduto la conferenza stampa d’apertura del Sundance London – Film and Music Festival, prima esperienza europea del Sundance Film Festival che fu trampolino di lancio per autori quali Steven Soderbergh, Paul Thomas Anderson, Darren Aronofsky e Quentin Tarantino. Ad accogliere il Festival dello Utah sulle rive del Tamigi è l’Arena O2, che a luglio ospiterà anche i Giochi Olimpici. Stando alle parole di Redford e Cooper, era già nelle loro intenzioni far raggiungere al Sundance e ai suoi film indipendenti un pubblico internazionale. Londra sembra essere la scelta più adeguata anche alla luce della composizione del programma festivaliero americano, dove la maggior parte dei film non targati US è inglese. Come dice R. Redford: “Siamo qui per due ragioni, la prima è che siamo stati invitati dall’O2 e la seconda è che volevamo approdare ad un mercato internazionale, ma con cautela. Ero riluttante all’idea perché volevo che questo passo avesse un significato, e ho sentito che questa era l’occasione giusta. Abbiamo deciso di portare qui a Londra una versione ridotta di quello che facciamo nelle montagne dello Utah a gennaio, e di farlo in un altro Paese su invito per testarne l’accoglienza”.

Possiamo sperare che Londra sia solo il primo passo verso l’Europa.

Ad aprire ufficialmente le danze è stata la conversazione serale tra l’attore e produttore hollywoodiano Redford e il musicista T-Bone Burnett (Premio Oscar per una soundtrack contenuta in Crazy Heart), moderata dallo scrittore Nick Hornby.  Non è un caso che sia proprio l’incontro con il musicista a inaugurare l’evento che, oltre a essere una overview sul festival americano fatta di film, documentari e cortometraggi, apre le porte alla musica e agli spettacoli live con i Placebo, Tricky e Rufus e Martha Wainwright. Lo stesso Redford ha sottolineato la volontà di connettere le arti fra loro ricordando quanto sia stretto e importante il rapporto tra musica e cinema: “La musica è molto importante per i film. Guardando al passato, ad esempio, mi viene in mente un film inglese, Chariots of Fire, incentrato sulla musica. Ricordo che la musica giocava un ruolo importante anche in un film che ho interpretato anch’io, Butch Cassidy. La musica ha avuto un posto rilevante in molti film in cui sono stato coinvolto, ed è questo l’argomento di cui discuterò con T- Bone. Vedo il futuro come un ibrido, è la direzione in cui ci porta la tecnologia. Ciò che prima era separato, ora tende a convergere, è ciò che proviamo a fare al nostro festival. Abbiamo una sezione chiamata New Frontier dove per molti anni ci siamo limitati a mostrare i nuovi dispositivi Sony. Ho capito che così com’era, questa sezione non aveva vita, mancava la connessione tra arte e persone. Abbiamo mostrato la tecnologia nelle sue forme più avanzate facendo interagire gli artisti con il prodotto. Siamo partiti dai film per arrivare alla musica e ai documentari, musica e film sono il nuovo ibrido. L’importanza della musica per il film e viceversa è notevole, e volevamo mostrare che questa connessione è sempre più forte”.

Alex Hill ha così spiegato l’invito al Sundance Film Festival: “AEG è sempre pronto a rompere gli stereotipi, e l’O2 è uno delle migliori location al mondo pensate per la musica, ma abbiamo ospitato anche altre tipologie di eventi, sia sportivi – come l’ATP World Finals che ha registrato la presenza di 250.000 persone venute per vedere giocare gli otto migliori tennisti al mondo o come le Olimpiadi che si terranno la prossima estate – sia artistici – abbiamo avuto una partnership con il Royal Ballet. Per noi è facile ospitare un festival cinematografico nel cuore dell’O2 e con la nostra abilità in ambito musicale, non è difficile aggiungere tale componente al festival”.

E a rimarcare il processo attivo di scambio fra le arti non sono solo live performance ma anche lavori come Under African Skies di Joe Berlinger (Paradise Lost), un viaggio cine-musicale sulla produzione dell’album vincitore del Grammy Award, Graceland, di Paul Simon.

Nella fusione tra la pop music americana e le sonorità sud africane l’album Graceland suggella l’incontro e il dialogo tra culture e quando uscì, nel 1986, fu subito salutato come un grande successo. Tuttavia non mancò di suscitare accese polemiche e sentimenti controversi, tirandosi addosso le accuse di aver rotto il boicottaggio imposto dalle Nazioni Unite contro il Sudafrica per porre fine all’apartheid. Il documentario è stato girato in occasione del venticinquesimo anniversario dell’uscita di Graceland, quando Paul Simon è ritornato in Sudafrica per un concerto tributo che ha rivisto sul palco tutti i protagonisti del progetto, e non ha perso l’occasione di ripercorre le tappe di quel viaggio tanto discusso. Nell’economia dell’esplorazione di ciò che l’album rappresentò all’epoca, sia dal punto di vista musicale sia sotto il profilo socio-politico, anche Oprah Winfrey, Quincy Jones e Paul McCartney sono stati chiamati a esprimersi sul significato di Graceland.

Nel 2011, all’alba della reunion celebrativa, Berlinger ha immortalato Paul Simon insieme ai musicisti sudafricani mentre nuova linfa vitale veniva iniettata alla session che si è arricchita di nuove e più profonde introspezioni. Al suo ritorno in Africa, Simon ha ricevuto un’accoglienza calorosa dagli artisti della ‘Terra della Grazia’, e non è difficile indovinarne il motivo considerando la gioia e l’orgoglio della partecipazione.

Il documentario di Berlinger è anche una ricerca sulla genesi delle canzoni e sull’interazione tra tradizioni musicali diverse ma fortemente desiderose di dialogare e creare grooves unici. Nelle prime registrazioni avvenute a metà degli anni ’80 Simon è riuscito a ottenere il massimo dai musicisti scelti ed è stato talmente determinato nel perseguire i suoi obiettivi da ignorare la rabbia degli attivisti anti-Apartheid che chiedevano a gran voce il boicottaggio culturale della nazione, e da essere per questo pesantemente criticato anche dall’African National Congress. Per la prima volta Berlinger ha messo insieme Dali Tambo, co-fondatore del gruppo Artists Against Apartheid, e Simon per discutere sulle reazioni che l’album scatenò nelle persone che lottavano contro l’Apartheid e sulle motivazioni culturali all’origine dell’idea. Under African Skies tradisce un approccio indulgente nei confronti del musicista e della sua iniziativa ma allo stesso tempo riesce a far riflettere sul ruolo dell’artista e sull’incidenza dell’arte nella società.

Di altra natura è la ricerca di Eugene Jarecki che racconta la guerra alle droghe combattuta in America, una lotta asfissiante che negli ultimi 40 anni ha contato 45 milioni di arresti. The House I Live inizia con una dichiarazione d’intenti di natura emozionale: Jarecki spiega che il documentario trae origine da due accadimenti molto personali, la lotta alle ingiustizie perseguita dalla sua famiglia che da sempre sente la responsabilità di aiutare chi soffre, e la storia dell’amata tata Jeter, una donna afroamericana con cui è cresciuto e che ha perso un figlio a causa della droga. Il documentario è una panoramica sul fenomeno della Guerra alla Droga che cerca costantemente di equilibrare sentimenti intimi e una quantità notevole di informazioni su come lo Stato conduce tale battaglia. Non ci sorprende scoprire che sono soprattutto le classi meno abbienti – tra cui spiccano gli afroamericani – a essere maggiormente coinvolte nel giro della droga, mentre invece ci colpisce l’inadeguatezza del sistema ad affrontare il problema: i poliziotti arrestano prevalentemente i colpevoli di reati minori, lasciando intoccati i criminali più pericolosi, e la mandatory sentencing – che prevede un numero minimo di anni di detenzione per coloro che hanno commesso un crimine – finisce quasi per equiparare reati di diversa portata. Famigliari di persone coinvolte negli affari di droga, spacciatori, consumatori, poliziotti, giudici, esperti, carcerati, sono i volti di questo sfaccettato e ricco di prospettive documentario che si è aggiudicato il Grand Jury Prize: U.S. Documentary al Sundance Film Festival 2012. Come dice David Simon, giornalista, autore e produttore di serie televisive, “la guerra contro la droga distrugge ciò che la droga non ha ancora annientato”. Il documentario è una riflessione sul fallimento del sistema americano, fatto di leggi che danneggiano invece di curare, è uno sguardo che non si esaurisce nella denuncia ma che trova, nel mix di sentimento e informazione, la cifra stilistica per sensibilizzare le coscienze e sollecitare le istituzioni verso un cambiamento di rotta possibile. Quando la tata Nanny guarda in televisione la vittoria di Barack Obama nel 2008, Jarecki sembra vedere nel nuovo presidente la speranza di un approccio più realistico alla questione delle droghe, a discapito delle promesse facili dei suoi predecessori.

Francesca Vantaggiato 

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