Euganea Film Festival

‘TARA’, il dinamico documentario sul fiume all’ombra dell’Ilva di Taranto

Published

on

Il film racconta un territorio in cui i miti si scontrano con la realtà e in cui il progresso ha avuto un impatto pesante sulla natura e sulla società.

TARA, presente in sezione lungometraggi alla 22a edizione di Euganea Film Festival e prodotto da Fufifilm, è un documentario potente, diretto dal tedesco Volker Sattel e dall’italiana Francesca Bertin. I due registi esplorano gli spazi fisici e sociali attorno al fiume Tara, che dà il nome al film, a cui si attribuiscono proprietà curative e che connette Taranto all’acciaieria Ilva.

La trama di TARA

Il Tara si trova alla periferia di Taranto. La gente del posto ritiene che sia il fiume della buona sorte, le cui acque si dice abbiano poteri magici e lenitivi nonostante siano tossiche. La città pugliese è considerata una delle più inquinate d’Europa a causa degli alti livelli di emissioni di diossina e delle masse di polvere provenienti dall’acciaieria, il vecchio stabilimento Ilva.

Attraverso immagine poetiche, precise e dinamiche, TARA racconta lo sfruttamento ecologico ed economico, soffermandosi sulle persone che vivono in quelle zone popolari, le quali cercano di sopravvivere in una realtà non facile tra le rovine del post-capitalismo.

In questo quadro complesso lo spettatore segue una giovane ricercatrice (Jasmine Pisapia) nelle sue incursioni cittadine, in una narrazione dove sacro e profano si intrecciano con le logiche del profitto, lo sviluppo economico e le micro storie di chi vive quella realtà.

Il lavoro svolto dai registi

TARA segna la seconda collaborazione tra Volker Sattel e Francesca Bertin dopo La Cupola (2016).

La cineasta italiana da sempre mette al centro delle sue opere i temi di identità, spazio e memoria mentre il collega tedesco, già autore di mediometraggi e lungometraggi, è anche direttore della fotografia.

I due registi, nel descrivere l’Ilva e le sue devastanti conseguenze, si sono imbattuti in articoli sugli abitanti nei pressi del Tara che credono nelle proprietà taumaturgiche dell’acqua. Connettendo le due realtà, si sono resi conto che a Taranto il fiume e l’acciaieria sono collegati.

L’approccio che si nota nel film è quello di un’indagine da diverse prospettive. Si parte dall’architettura e dalla storia di quei luoghi per arrivare agli incontri con persone che ne hanno raccontato le problematiche già ad altri media. L’approccio tra i documentaristi e gli individui locali è colloquiale: al centro non c’è la fabbrica, non c’è l’inquinamento ma ci sono loro. Bertin e Volker, che in passato si è occupato di altre acciaierie e disastri annessi, non sono mai andati fisicamente all’Ilva. Essa è solo il punto d’inizio del documentario, lo sfondo; non si parla direttamente della fabbrica ma dei vissuti della gente ad essa intrecciati.

Il lungometraggio segue il corso del fiume, quindi il flusso della trama non è regolare. Scorre veloce, poi cambia prospettiva per riapparire in un altro ambiente. La storia è narrata per frammenti, perché l’idea conduttrice non è una sequela precisa di dettagli, ma quella di mostrare la sopravvivenza in quelle condizioni difficili.

Non a caso il film si apre con le immagini del torrente e della campagna vicino a Taranto (città gloriosa dove un tempo la natura dominava su tutto), spostandosi poco dopo, in modo brutale ma efficace, in città, tra palazzi degradati e industrie dove il progresso ha mangiato tutto.

L’Ilva ha mietuto parecchie vittime, lavoratori non consapevoli del pericolo di quelle esalazioni, per cui il tessuto sociale è stato fortemente segnato. Le immagini d’archivio utilizzate fungono da racconto di un passato bello che il progresso tenta da anni di distruggere.

Un’originale modalità di racconto

Il documentario non affronta con approccio scientifico le problematiche del Tara, ma decide di dare voce alla scienza in una prospettiva molto più ampia. È grazie al racconto di ex operai dell’Ilva, di bambini, ragazzi, uomini e donne che si compone un complesso ritratto sociale, che definisce un quadro di Taranto e dei cambiamenti della zona nel corso degli anni.

I registi hanno esplorato ogni luogo possibile attorno all’acciaieria della città, alla ricerca di rapporti e segni tra il torrente, l’acqua e i suoi abitanti; lasciando libertà d’intervento alle persone davanti alle telecamere.

Scardinando quindi un modo di osservare classico, la figura della ragazza che esplora quel mondo diventa la prospettiva di comprensione dello spettatore in un nuovo approccio etnografico. Una modalità quindi diversa, più democratica, basata sulla fiducia verso il narratore, senza interviste dirette davanti alla macchina da presa.

L’equilibrio tra l’ambiente e l’uomo

Il film ha una narrazione circolare: si parte dal fiume per raccontare la città e poi tornare al Tara. Il corso d’acqua è sempre presente anche quando non viene nominato. L’obiettivo dei registi è indagare il rapporto tra gli spazi naturali e quelli urbani, tra la città vecchia e i nuovi rioni, come il nuovo quartiere Paolo VI, sito vicino all’Ilva, il Mar Grande e il Mar Piccolo.

Un territorio segmentato che conserva legami saldi e tradizioni, come per esempio le Case Bianche per l’inizio della primavera (una vasta area abitativa dove le persone sono state sfollate dal centro città) o i fuochi di San Giuseppe. Ciò che si nota nel documentario è il contrasto esistente tra i posti colpiti dallo sfruttamento e la loro naturale bellezza. Mostrare le meraviglie del posto, troppo spesso dimenticate, serve a dare un riconoscimento vivo a queste terre distrutte dal disastro ecologico.

Molto forte è la scena in cui un abitante crea alcuni fiori utilizzando delle bottiglie di PET; come a voler ritrovare e ricomporre un passato e una dignità che non se ne sono mai andati. Ricostruire il passato serve a definire anche un senso di comunità perduto e una coscienza di classe, a creare un nuovo rapporto con la natura.

Il realismo magico

Il Tara è connesso inevitabilmente a Taranto, città considerata un tempo la perla del Mediterraneo per eccellenza; molto viva culturalmente grazie alla sua posizione geografica, piena di incontri, scambi, miti.

Il corso d’acqua, così come la città, deve il suo nome a Taras, il mitico figlio del dio del mare Poseidone; non è quindi un caso che esista una forte connotazione magica e simbolica in questa narrazione.

Come si è detto, le acque del torrente, malgrado un inquinamento sempre più devastante, sono considerate intrise di proprietà benefiche.

Nel documentario, nelle immagini di immersioni tra la flora acquatica e le fontane sorgive, si nota una componente legata al sogno.

Il ruolo dell’immaginazione è fondamentale ed è voluto da Sattel e Bertin; più si cerca di capire scientificamente la realtà e più questa sorprende con l’inaspettato. Le immersioni presenti sono la rappresentazione di questa magia; per esempio la leggenda dell’asino che si immerge e ritrova la forza è parte di tale narrativa popolare.

Non è un caso che il sacro e il profano, il sogno e la realtà, siano così vicini in questo racconto. TARA è sì una narrazione geografica, storica, fisica ma è soprattutto il rapporto quasi sacrale che il fiume ha con le persone di quei luoghi.

Exit mobile version